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In Sardegna si scopre un problema al giorno. Una volta è la scuola e un’altra i conti pubblici. Una volta lo spopolamento e un’altra il senso di smarrimento che sembra avvolgere le nuove generazioni.

Mai accade che ci si metta il dubbio che i problemi non sono singoli, slegati ed episodici ma invece tutti riconducibili a una stessa grande matrice.

Mentre la politica si è via via condannata a lasciare il campo a tecnici e ragionieri, tutti patto di stabilità e partita doppia, la società si evolve senza governo, senza analisi e senza interventi strutturali.

C’è un problema dovuto alla violenza, all’incredibile desacralizzazione del bene supremo della vita, alla sicurezza degli amministratori pubblici onesti, al disorientamento di intere generazioni?

Certo, non si può dare una responsabilità immediata e diretta allo Stato e alle istituzioni. Perché la responsabilità della violenza è sempre in capo a chi la compie.

Ma quando il pubblico arretra, chiudendo le scuole, le caserme, gli uffici postali, i centri di sostegno alla crescita delle imprese, cosa sta seminando? Chi insegnerà ai bambini che saranno i protagonisti del domani il metodo del dialogo e della cultura? Chi farà le indagini e chi assicurerà prevenzione e riferimenti?

Si risponde che una certa Sardegna non sta in piedi, né come costi né come livello di offerta dei servizi. Ultimamente si è parlato di scuola, guardandosi bene dall’allargare l’orizzonte al resto delle attività umane nei territori interessati da riforme, aggiustamenti e tagli.

Si può affrontare il nodo dell’istruzione disgiungendolo da quello dell’agricoltura e della pastorizia, dell’industria che chiude e delle nuove povertà materiali e culturali? Si può, cioé, incidere così pesantemente su una comunità senza considerarla nel suo complesso?

Ci parlano di spopolamento dei paesi senza considerare il fenomeno dell’abbandono delle campagne, della mancanza di infrastrutture, della selvaggia migrazione di migliaia di persone nelle periferie-dormitorio delle poche città sarde che possono essere considerate tali.

Si continua a fare cose vecchie, seguendo i freddi criteri computistici, scordando che l’investimento che più può dare ritorni a medio e lungo termine è quello in cultura, intesa come semina dei più alti principi di convivenza: il rispetto di sé e degli altri, quello per la vita e la libertà.

La difesa della terra, del paesaggio, di un ambiente in cui l’uomo viene considerato protagonista non in quanto numero o consumatore ma come elemento centrale della società.

Servirebbero risposte organiche e non legate tra esse. Servirebbero più politica, più cuore, più ascolto, più predisposizione al confronto.