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Ho già avuto modo di scrivere in passato che alla Sardegna degli anni Duemila non serve una nuova mitopoiesi ma una seria presa di coscienza sulla sua identità.
Siamo infatti convinti che la storia non si faccia creando leggende ma analizzando emergenze archeologiche e reperti, provvedendo poi a contestualizzarli e a renderli compatibili col periodo al quale risalgono.
Anche per questo occorre mettere tutti al riparo da strumentalizzazioni di carattere ideologico o politico, che rischierebbero di distorcere la lettura del passato, anticipando un’interpretazione che solo la scienza potrà fornire in maniera attendibile.
Dobbiamo sapere chi erano i nostri antenati, dobbiamo disvelare la loro vera identità. E dobbiamo farlo mettendo in conto che si tratta di un passaggio fondamentale per l’inizio di un’opera di decodificazione e racconto della nostra civiltà passata, rifuggendo la tentazione di impiegare gli strumenti propri (o, peggio, quelli impropri) della storia per legittimare i bisogni identitari di un popolo che, nella costruzione di una memoria collettiva, legittimamente ambisce alla sua emancipazione.
Serve che tutti diano un proprio contributo divulgativo, consci della responsabilità che ogni sardo – accademico o appassionato che sia – ha anche in questo campo.
Occorre farlo perché tutti abbiamo un compito nella gestione di questo particolare momento storico. Alla politica spetta quello di sostenere la ricerca e favorirne la valorizzazione, senza condizionare il lavoro degli archeologi. Compito delle istituzioni è anche quello di assicurare, senza altre esitazioni, tutela e fruibilità di luoghi e reperti.
Gli studiosi, dal canto loro, rifuggano la tentazione di tenere il dibattito all’interno delle università e delle soprintendenze. Devono predisporsi a rendere conto all’opinione pubblica dei loro studi e delle loro conclusioni.
Se non lo facessero trascurerebbero colpevolmente le opportunità di crescita culturale, identitaria ed economica che potrebbero essere favorite dal crescente interesse che i sardi dimostrano nei confronti di scavi e scoperte.
La sfida è stata per ora raccolta dagli archeologi delle università e delle Soprintendenze, dai dirigenti dei musei di Cagliari e Cabras e del centro di restauro di Li Punti.
Dunque, da chi ha lavorato negli scavi dagli anni ’70 ai più recenti, nel recupero di oltre cinquemila frammenti e nell’attuale sistemazione.
La sfida è culturale ma anche politica ed economica. Dalla valorizzazione della nostra storia e identità può e deve nascere un progetto moderno, capace di creare opportunità e lavoro.
S’identidade dde su populu Sardu est naxia meda tempus prima dde sos Nuragicos e sas provas bì suno. Su proplema suno sos istudiosos amasedaos a una soprintendenza in manos a suprematzia romana. Fintzas a cando sa vera istoria dde su populu Sardu non benidi iscritta e istudiada in’iscola est unistoria ki esisti ma non connotta. Toccada a nois a dare sintzos e mustra, kistionande in limba e regalande libros a sos pitzinnos pro torrare a su sentidu dde unu populu millenariu ki non connoske s’istoria sua.
Se posso, prendendo spunto dal commento precedente, mi permetto di chiedere cosa si intenda esattamente con “s’identidade de su populu Sardu”?
Forse la lingua che si usa mentre ci si esprime per affermarla, per esempio? Ci si riferisce ai Nuragici? O ci si riferisce ad una generica ‘sardità’?
In quest’ultimo caso, allora, non sbagliamo a parlare di ‘nostra identità’?
Non dovremmo forse parlare di “identità della nostra terra”, l’unico contenitore di fatti che manifesti confini (fisici) definiti?
In archeologia, la Lex Kossinnae ha guidato in passato l’identificazione di province culturali archeologiche esattamente definite, con popoli definiti: ogni seriazione di prodotti industriali abbastanza caratteristico deve necessariamente riferirsi ad un determinato popolo, per cui “ogni civiltà nettamente delimitata si copre con un nome storico”. Le riflessioni su quella legge portarono in seguito lo stesso Kossinna a considerare ciascun cambiamento culturale verificatosi in un territorio come il risultato della migrazione di un nuovo popolo (“tutto è migrazione”).
Non è curioso che un concetto così estremo e così aperto al medesimo tempo, nato per dare un ’insediamento ancestrale’ ai Teutoni, ci suggerisca che questi nomi (Nuragici, Sardi, Anthony) non hanno alcun valore senza relazioni? A quale cantone Nuragico deve relazionarsi il suo nome, Direttore?
Non è che l’unica cosa che ci accomuni ai nuragici sia, approssimativamente, l’aver scelto di relazionarci tra noi in un posto così bello come la Sardegna?
Buonanotte, sigla.
Sarà un mio limite, ma confesso di non averci capito nulla 🙁
Non è solo una questione di territorio occupato: tra i nuragici e i sardi odierni credo vi sia, qualcuno mi corregga se sbaglio, una correlazione genetica e di storia ininterrotta. Poi questa eredità è probabilmente più forte in Barbagia e nell’entroterra in generale, ma è normale e una cosa simile avviene anche in Scozia.
Considerazioni molto interessanti. Le stesse che fece anni or sono Ignazio Pillitto all’interno delle mura dell’Archivio di Cagliari.