Pensi un nuovo futuro per la Sardegna con l’intervento da protagonisti degli imprenditori locali animati dallo spirito di iniziativa, capace di imprimere una svolta che parta dalle risorse del territorio.

Ti imbatti, invece, nella bruta realtà di un presente, che ancora una volta avanza con gli elementi tipici del neocolonialismo di marca ottocentesca, adeguato ai tempi della globalizzazione e della circolazione delle merci prodotte all’esterno. Tutto ciò viene fuori da una lettura attenta di quanto un servizio, a firma di Giandomenico Mele, ha svelato nella pagina delle cronache di Olbia della Nuova Sardegna. Il giornalista ha raccontato domenica scorsa di un polo commerciale che sta sorgendo in un’area a breve distanza dall’aeroporto.

Emerge così un modello in netta controtendenza con quanti divulgano idee e principi nella direzione del sovranismo e delineano l’immagine di una Sardegna con elementi di indipendenza istituzionale. Si ripete uno schema abbastanza noto: il capitale impiegato per l’investimento è in mano ad una srl con sede a Milano, i lavori sono affidati ad una impresa con sede nei pressi di Bologna, la realizzazione del nuovo centro commerciale avviene in collaborazione con una impresa specializzata che ha sede a Cagliari.

E i nativi, per usare un termine caro a Pietro Soddu nel recente romanzo-saggio storico L’ultima Spagna, che ruolo hanno? Il loro lavoro consiste nella realizzazione della struttura commerciale e nelle attività di sbancamento dell’area urbanizzata. Nella nuova struttura verranno messi in vendita prodotti tecnologici, scarpe di marca per donne, uomini e bambini.

Altri negozi metteranno in vendita materiali per varie discipline sportive, mentre non mancheranno tutti i tipi di abbigliamento. E gli occupati quanti saranno? I dati non si conoscono, ma appare scontato che i nativi avranno il ruolo dei commessi e degli addetti ai magazzini, i quali con molta probabilità verranno assunti dall’esercito dei disoccupati che abbondano in Sardegna e nel resto delle regioni dell’Italia.

E i profitti? Anche su questo aspetto la risposta è abbastanza ovvia poiché l’attività imprenditoriale, calata in una zona di forte presenza di turisti, eserciterà un ruolo di prelievo di incassi; non riguarda quindi la produzione di nuove merci, quelle che si auspica che vengano realizzate come frutto di una capacità innovativa legata alle risorse del territorio sardo. In questo caso si tratta di una attività di vendita di beni realizzati all’esterno funzionali per l’accumulo di ricchezza che andrà fuori dalla nostra Isola.

Ai nativi rimane il valore degli stipendi. Una cronaca che si ripete e riporta alla memoria il ruolo di un cementificio che dai fianchi del Monte Albo estrae la pietra calcarea e la utilizza come materia prima per la produzione e la vendita del cemento. Anche in questo caso i profitti vanno fuori Sardegna, restano gli stipendi per gli operai e la constatazione che questa attività imprenditoriale, ancora in esercizio, si è contraddistinta per il rifiuto di diversificare le attività e di reinvestire cosi una parte dei profitti nel territorio dove sfrutta la pietra calcarea.

E’ questa condizione di conflitto tra chi accumula profitti e porta via ricchezza all’esterno senza creare nuovi investimenti in linea con le risorse della Sardegna che dovrebbe indurre una Soggettività Politica Sardista a una riflessione, a una critica della politica economica, che ritengo sia da elaborare con finalità antagoniste ai piani di colonizzazione, che condizionano il vivere di tutti.

Da chi si muove nei sentieri di un sardismo rinnovato, dovrebbe giungere una visione adeguata a contrapporre l’alternativa ai tempi della globalizzazione, che dall’esterno continua ad imporre subordinazione e succursalismo, espropria i locali nel ruolo di produttori e li trasforma in consumatori con la mortificazione delle abilità individuali. Sta in questa re-azione, la critica al potere economico esterno che interviene in Sardegna e porta via i profitti.

Acquisire questa consapevolezza significa sviluppare un’idea che si fonda sulle capacità di intraprendere e di negare quel pregiudizio diffuso ad arte in base al quale si è imposto il falso pensiero del sardo privo di intraprendenza e in quanto tale da”colonizzare”. Questa falsità è stata diffusa per consentire al potere economico, esterno ai bisogni locali, di insediarsi e operare secondo i meccanismi dell’accumulo privato dei profitti.

Occorre perciò ribaltare alla radice questa visione in modo da potere coniugare la cultura politica col segno del valore etico della sardità e la dinamicità economica, direbbe Pietro Soddu, romanzo-saggio storico di cui sopra, dei nativi.

Gli imprenditori che vengono dall’esterno vengono scelti dal Potere politico dominante che elargisce risorse finanziarie pubbliche e da vita ad una economia assistita che non riesce in quanto tale a superare gli squilibri sociali nelle aree marginali: queste vengono divise in zone meritevoli di sviluppo e zone marginali all’interno della marginalità.

All’obiettivo di superare che le differenze sociali ed economiche, si invece sovrapposto ed aggiunto l’assistenzialismo che toglie dignità, impone sudditanza e mortifica la cultura dell’intraprendere individuale e della cooperazione endogena come spinta interna di sviluppo. In vista di questo obiettivo occorre, con l’azione politica di contrasto e di cultura sardista, ribaltare alla radice nella società civile lo spirito negativo dell’assistenzialismo e diffondere un sardismo che sappia coniugare l’ideologia con la dinamicità economica.