“Noi vogliamo una società socialista che corrisponda alle condizioni del nostro paese, che rispetti tutte le libertà sancite dalla Costituzione, che sia fondata su una pluralità di partiti, sul concorso di diverse forze sociali.

Una società che rispetti tutte le libertà, meno una: quella di sfruttare il lavoro di altri esseri umani, perché questa libertà tutte le altre distrugge e rende vane”.  (Enrico Berlinguer)

 

Queste affermazioni, nel mondo di oggi, sono socialiste, comuniste o, semplicemente, giuste?

Queste affermazioni, nell’Italia e nella Sardegna di oggi, possono essere attribuite al partito che governa a livello italiano e sardo? Sono patrimonio del partito-Stato che è egemone nelle Asl, negli enti, in ogni settore economico?

Nei giorni scorsi il parlamentare nuorese Bruno Murgia ha scritto del nuovo bipolarismo che, nei Paesi occidentali più avanzati, non è più tra destra e sinistra ma tra identitari e globalisti.

Ha pure ricordato che gli anglosassoni sintetizzano questa nuova alternativa di prospettiva con la definizione “new political divide”.

In effetti, nelle famiglie politiche tradizionali, è sempre più difficile capire chi si batte per vincere le povertà sempre più consistenti, la scarsa distribuzione della ricchezza, le élite fallimentari che perpetuano se stesse e ignorano quelli che sono rimasti indietro.

Chi difende la nobiltà del lavoro? Chi tiene alta la bandiera della sua dignità e della necessità che sia “diffuso”, giusto e accessibile a tutti, qualunque sia il punto di partenza?

Questa è la priorità che abbiamo perso di vista, imbrigliati come siamo in un egoismo figlio di un’organizzazione sociale che ci vuole divisi e incasellati in rituali che hanno necrotizzato i tessuti una volta vitali, capaci di generare opportunità e crescita.

La competizione dell’ultimo referendum ha rivelato che il gioco è scoperto: il voto non è più controllabile, indirizzabile, piegabile secondo le esigenze dei bramini che governano a dispetto di altre caste via via impoverite.

Le analisi dei flussi hanno rivelato che più che a una competizione ideologica dovremo presto abituarci a un confronto generazionale. I garantiti contro i nuovi poveri, i figli della pensione calcolata col retributivo contro quelli che in pensione non sperano più nemmeno di andarci ma si accontenterebbero di un lavoro decente, garantito e di prospettiva.

E poi, nel futuro prossimo, quelli che si stancheranno di essere ricattati dalla politica – con contratti da interinali di massimo sei mesi – e che tirano avanti con i voucher da 4 euro all’ora contro quelli che ancora una volta getteranno la spugna e scapperanno lontano dalla Sardegna.

È in corso un cambiamento epocale, nella nostra società, e la politica e i giornali non riescono né a vederlo, né a raccontarlo.

Provano a farlo alcuni settori della cultura, quelli non legati a doppio filo alla mangiatoia dei contribuiti facili, all’adunata dei ridicoli appelli pre-elettorali, quasi sempre a favore degli affamatori del popolo. Che, giustamente, li ignora e si sente anzi stimolato a votare contro.

Bisogna dar gambe democratiche, a questo movimento pro-lavoro, pro-giustizia, anti-globalizzazione. Bisogna sforzarsi di includere forze “positive” ed elaborare ricette giuste e “possibili”, senza scordare che nessuna risposta costruttiva può arrivare dalla protesta sterile.

Le grandi energie antagoniste devono e possono costruire una alternativa praticabile, moderna e onesta, superando gli antichi steccati e costruendo ponti che possano essere attraversati da uomini e donne di buona volontà.

Negli Stati Uniti i costituenti hanno scritto nella Carta fondamentale che ogni cittadino deve poter avere il diritto alla felicità.

Attualizzando quella dichiarazione ci piacerebbe dire che la stella polare, per la situazione in cui ci troviamo, è quella di poter costruire una società che superi l’individualismo e nella quale a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d’infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra.