“Cagliari e la Sardegna sono strategiche per il rilancio del Sud”. “La Sardegna soffre ma aiuteremo il Sud”. Sono due delle frasi pronunciate dal presidente del Consiglio Renzi il 16 novembre scorso nel corso della sua tappa cagliaritana in occasione della campagna referendaria in favore del Si e che sono state riportate con grande evidenza dalla stampa locale.

Fin qui, penserete, niente di nuovo. Vi invito però a rileggere queste frasi con maggiore attenzione ed a provare ad allargare lo sguardo al resto dell’Europa mediterranea. Immaginate ad esempio il primo ministro spagnolo Rajoy, in visita nell’arcipelago di lingua catalana fare una dichiarazione del tipo: “Palma de Mallorca e le Baleari sono strategiche per il rilancio del Sud” (ovviamente spagnolo). Oppure ancora quello francese Valls in visita ad Ajaccio affermare: “la Corsica soffre ma aiuteremo il Sud” (naturalmente francese).

Ora, essendo evidente a tutti che l’economia della Corsica non è inscindibilmente legata a quella della Provenza, né che i destini delle Baleari sono un tutt’uno con quelli dell’Andalusia, chiunque sarebbe in grado di valutare tali di affermazioni per lo meno come forzatamente generiche e comunque poco sensate, trattandosi di realtà molto diverse l’una dall’altra.

Stranamente però nessuno sembra fare una piega allorché si fa riferimento alla Sardegna proprio in questi termini e così purtroppo è immancabilmente avvenuto anche stavolta.
Ma perché avviene tutto questo?

Per capirne la genesi proviamo a fare un passo indietro. Antonio Gramsci, che com’è noto fu uno dei massimi pensatori marxisti italiani e non solo (e le cui origini erano campane dal ramo paterno) aveva teorizzato l’alleanza tra operai del triangolo industriale e braccianti dell’Italia meridionale. Ma affinché potesse stare in piedi, essa avrebbe dovuto avere necessariamente come premessa un altro patto: quello del bracciante duo siciliano con il pastore (ed il minatore) sardo non essendo pensabile, ai suoi occhi di intellettuale che aveva rinnegato le giovanili e ruspanti passioni sardiste-indipendentiste, una Sardegna intesa per quella che è, cioè come realtà di fatto a sé stante.

Per Marx e i suoi epigoni infatti, tutto ciò che non atteneva alla dimensione economica, che era ai loro occhi l’ambito fondamentale delle dinamiche sociali e della conseguente evoluzione della storia, era infatti una sovrastruttura da marginalizzare e rendere irrilevante e comunque da confinare sempre ad un innocuo e decadente privato fatto di focolari domestici e vernacoli a cui attingere poeticamente come fa un agnello con il latte materno.

E’ il motivo per cui la nostra isola, che per innumerevoli ragioni era e rimane realtà nazionale compiuta (ancorché priva di una sua statualità internazionalmente riconosciuta), ai loro occhi doveva essere destinata ad un “cupio dissolvi”, cioè ad una cinica eutanasia auto o eteroindotta.

Il tutto è stato poi aggravato pesantemente dal pieno realizzarsi dell’altra tesi gramsciana in virtù della quale il marxismo avrebbe dovuto esercitare un ruolo egemonico e quindi semi-monopolistico nel mondo accademico e intellettuale italiano in generale. Questo avvenne purtroppo per svariati decenni fino ai tempi attuali, in virtù della mancanza di un autentico pluralismo culturale (con tutte le nefaste conseguenze che ne sono derivate per la nostra isola).

Sono nati e si sono infatti diffusi così a tutti i livelli, i radicatissimi pregiudizi in base ai quali la Sardegna sarebbe priva di una storia propria, la sua lingua deve necessariamente essere trattata genericamente come dialetto e come tale esclusa dalla sfera pubblica, la sua cultura descritta in termini di innocuo e irrilevante folklore, la longitudine ignorata al contrario della latitudine, la sua realtà e il suo destino di isola del Mediterraneo occidentale sorella di Corsica e Baleari ignorata, i numerosi indici socio-economici non collimanti con quelli delle regioni dell’ex Regno delle due Sicilie descritti in termini di anomalia, così come atipiche devono essere rappresentate le scelte politiche del suo elettorato in favore di movimenti identitari, nazionalisti e sovranisti. E potrei continuare ancora a lungo.

Il fatto che questa ideologia sia stata largamente dominante anche nelle due università sarde e che lo sia stata, ancorché con altre formule e denominazioni, anche dopo il crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo, non ha decisamente giocato a nostro favore.

Anzi, è stata autenticamente tragica, tenendo conto del fatto che le élites intellettuali sono al vertice del sistema dei flussi di comunicazione politica e della trasmissione dei valori culturali. Questi infatti, sulla base del modello a cascata teorizzato da Deutsh, si riversano dall’alto verso il basso coinvolgendo prima le élites politiche per poi concludersi, dopo una serie di altri passaggi e feedback, con l’opinione pubblica nel suo complesso (che di tali flussi è più o meno consapevolmente destinataria).

Ecco il motivo per il quale il paradigma “meridionalista” secondo il quale la Sardegna sarebbe una sorte di lontanissima appendice dell’Italia meridionale e quindi, ça va sans dire, una versione spopolata e minore della Sicilia (ovviamente senza la storia e la cultura di quest’ultima), è tanto radicato anche nella nostra isola da apparire una verità acquisita che sarebbe folle o per lo meno inopportuno o bizzarro contestare.

Ed ecco perché è fondamentale lavorare tutti insieme avendo la forza e il coraggio di metterlo in discussione non solo in quanto del tutto opinabile, fallace e non rispettoso per una realtà estremamente complessa qual è la nostra, ma soprattutto perché dannosissimo per l’immagine che noi sardi abbiamo di noi stessi e del futuro che tutti insieme siamo chiamati a costruire.