Le leggi 588 del 1962 e la 268 del 1974 rappresentarono i due cosiddetti grandi Piani di Rinascita della Sardegna, con risorse pari a circa 1000 miliardi di lire. Ma che differenze c’erano tra i due piani? E perché fallirono cronicizzando alcuni problemi dell’isola? Un ragionamento di Adriano Bomboi.

Nel 1962 e nel 1974 vennero finanziati i due grandi piani di Rinascita dell’economia della Sardegna. Ad oggi, sia gli studiosi che la storia stessa ci hanno presentato il conto di quella stagione politica, densa di prospettive deluse, di numerosi danni economici ed ambientali, ma anche di vari benefici relativi all’infrastrutturazione dell’isola.

Poco noti invece sono gli strumenti legislativi, oltre alla filosofia che li animava, responsabili dei controversi risultati ottenuti. Di quali si trattava?

Nel 1948, l’articolo 13 dello Statuto Autonomo regionale indicava nello Stato e nella Regione gli attori istituzionali che avrebbero dovuto promuovere una riscossa dell’isola.

Quattordici lunghi anni dopo la nascita dell’autonomia tale articolo trovò concreta attuazione tramite la legge statale 588/1962.

Questa legge era incardinata su tre pilastri essenziali: il primo consisteva nello stabilire gli indirizzi del piano di “rinascita”. Il secondo consisteva nell’approntare i fondi di spesa (circa 400 miliardi di lire diluiti a scaglioni per un decennio). Il terzo consisteva nell’affidare alla Regione gli strumenti esecutivi con cui portarli avanti.

Paradossalmente, già sul terzo punto Cagliari diventava in realtà semplice esecutore e non coordinatore di indirizzi tutt’altro che concertati col territorio di destinazione degli interventi.

Nello stesso anno infatti, per recepire la 588, la Regione varò la legge 7. Con essa l’isola veniva divisa in 15 zone omogenee, ed ognuna di queste veniva rappresentata da un comitato zonale di sviluppo, composto da sindaci, politici, sindacalisti ed esperti locali.

Non sfuggirà ai lettori più attenti che questa misura rappresentava un’importante conquista partecipativa (sul modello dei contemporanei programmi partecipativi promossi dall’UE) affinché tutte le comunità della Sardegna venissero coinvolte al successo della rinascita. In realtà, burocrazia, tribalismo politico ed una larga dose di incultura generale, rese poco proficuo questo strumento di partecipazione locale.

Al vertice invece la Regione si dotava di un assessorato alla Rinascita (peraltro già esistente dal 1957), nonché di un Centro regionale di programmazione, con un comitato di 12 esperti.

Le linee di credito vennero aperte dalla Cassa del Mezzogiorno, dal Credito Industriale Sardo e dal Banco di Sardegna. In particolare, il CIS destinò il 62% dei fondi al settore petrolchimico, a scapito di tutti gli altri, come l’agricoltura, benché previsti dal piano.

Questa scelta calata dall’alto, contro ogni logica di mercato, oltre alle distorsioni socio-economiche ormai ben note anche in materia di spopolamento delle zone interne, determinò una doppia gamma di danni a carico dell’agricoltura e delle manifatture.

Da un lato infatti venne gravemente danneggiata la piccola e media impresa; dall’altro la sottrazione di braccia all’agricoltura spogliò immensi spazi dell’isola, che finirono così aperti al pascolo brado, incrementando proprio – e qui sta uno dei grandi paradossi della “Rinascita” – anche il fenomeno del banditismo di matrice pastorale che la politica, da Roma a Cagliari, intendeva contrastare.

Si tratta di un classico esempio di “legislazione distorsiva” i cui effetti furono ben descritti da un filosofo liberale del calibro di Herbert Spencer nel corso dell’Ottocento, un concetto più tardi adottato anche dagli autori della Scuola Austriaca di economia, contro la presunta bontà di ogni “pianificazione centrale”.

La Rinascita infatti accelerò il processo di modernizzazione dell’isola selezionando un solo grande ambito economico, la grande industria, soprattutto in un peculiare passaggio storico che portava alla conclusione di un importante ciclo economico, e che in Sardegna coincise col varo del secondo piano di Rinascita. Di cosa si trattava?

Nel mondo dei primi anni ’70 tramontava l’epopea del fordismo, la politica occidentale ristrutturava l’economia su nuove basi finanziarie mentre l’industria si trovava a fronteggiare due epocali novità: la prima riguardava le innovazioni tecnologiche introdotte nella produzione di massa (in Giappone si passò rapidamente al modello del “just in time” per valorizzare la produttività ed il favore dei consumatori).

La seconda riguardava la guerra del Kippur, che portò alla crisi energetica del 1973, e le cui conseguenze si riverberarono per tutto il successivo decennio.

Ma cosa legava questi eventi all’industria sarda?

Per punire l’occidente dal sostenere Israele nelle sue battaglie contro gli eserciti arabi, i Paesi OPEC, capitanati dall’Arabia Saudita, tagliarono il 25% delle esportazioni di petrolio e combustibili, raddoppiando anche il prezzo del greggio.

Questa scelta cambiò per sempre il volto dell’industrializzazione occidentale (per sopravvivere ormai obbligata a seguire le innovazioni giunte dall’oriente).

Non ci vuole molto a comprendere che una Sardegna che aveva di fatto scommesso sulla petrolchimica si trovava così esposta, non tanto a fluttuazioni di mercato (perché anche lo shock petrolifero fu causato dalla programmazione politica saudita) ma a gestire un’industria in crisi in un’era in cui in estremo oriente questo modello si presentava già in avanzata fase di ridefinizione.

E mentre il declino dell’industria appariva ormai evidente, eccetto ad una politica clientelare che da esso traeva forza elettorale, diversi operatori economici preferirono orientarsi nel promettente settore edile che il turismo costiero offriva loro.

L’alterazione di mercato causata dall’interventismo politico della Rinascita finì così per incrementare anche quel processo di consumo del suolo, ben poco utile anche sul piano economico, rivolto ad un settore terziario che purtroppo solo in pochi casi seppe avviare meritevoli iniziative di pregio, tra cui quelle del Consorzio Costa Smeralda.

Il secondo piano di “Rinascita”, nonostante la dotazione di circa 600 miliardi di lire, nacque dunque già morto in partenza, con conseguenze vive ancora oggi. Questi si concretizzò con la legge statale 268 del 1974, una sorta di appendice della 588, che tentò ormai tardivamente di rattoppare i danni conquistati nel decennio appena trascorso (in parte seguendo le linee della legge De Marzi-Cipolla del 1971).

Mentre l’emigrazione proseguiva, tra i suoi indirizzi vi era il debole tentativo di rilanciare sia l’agricoltura che la piccola e media impresa. Ma la filosofia di contrasto al banditismo, ancora inquadrato nella sua genesi agropastorale, rimase immutata.

Appena due anni prima a Roma erano state adottate le conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla criminalità sarda, secondo il senatore Giuseppe Medici questa aveva sempre e comunque origine nel mondo agropastorale. Benché tali conclusioni avessero ormai numerosi critici, i pianificatori politici non le abbandonarono.

La legge regionale 33 del 1975 sancì il nuovo assetto della programmazione territoriale. Stavolta si passò dalle 15 zone omogenee ai 25 comprensori territoriali, anche stavolta svuotati di significato e trasformati in spazi di rivendicazione assistenziale. Ogni idea sardista sulla zona franca venne invece messa a tacere.

L’esito lo conoscete tutti: tra le eredità della “rinascita”, o di questa lunga agonia economica, abbiamo ereditato una politica sempre più clientelare, incapace di comprendere il valore ed i vantaggi della libera iniziativa.