Un patto ancora non completato in un risiko economico mondiale a “geometria variabile”.

Se ne parlava già dal 2004 ad Ottawa, città del Canada, del bisogno di un accordo commerciale sul libero scambio fra Canada e Unione Europea.

Ci sono voluti anni di negoziati, iniziati nel 2009 per concludersi con la firma avvenuta lo scorso Ottobre, a Bruxelles. Stiamo parlando del CETA, acronimo di Comprehensive Economic and Trade Agreement.

Definirlo accordo potrebbe essere un parolone, visto che dovrà poi essere ratificato dai 28 parlamenti nazionali degli stati Ue, 27 se consideriamo che la Gran Bretagna prepara, seppur goffamente, l’uscita dalla Ue.

Motivo per cui, persino Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, dice di andarci cauti con l’affermare che la partita sia da considerarsi finita.

La Ue è un mercato di sbocco appetibilissimo, con oltre 530 milioni di cittadini-consumatori, il più grande mercato unico mondiale.

Per il Canada, il blocco europeo rappresenta il secondo partner commerciale e, secondo l’Istituto di statistica canadese, la Ue, considerata nella sua interezza, è il secondo investitore all’interno del paese nordamericano.

Un fiume di inchiostro, quello del Ceta, lungo 1600 pagine, portatore di benefici e certamente di lati opachi.

L’accordo, secondo le stime, aumenterà il volume commerciale fra Ue e Canada del 20% e si conta, con l’abolizione di circa il 98% delle tariffe doganali, di far risparmiare almeno 500 milioni di euro l’anno agli esportatori del “vecchio continente”.

Il trattato garantirà la salvaguardia del “made in”, evitando di vedere il parmigiano in versione canadese o viceversa con un altro prodotto d’oltre oceano. Le imprese di ambedue le parti potranno poi partecipare alle gare d’appalto nella rispettiva controparte.

Fra i tanti lati contestati, e le manifestazioni contrarie non sono certo mancate, quello di appositi tribunali che faranno da arbitro nelle controversie fra uno Stato e un grande gruppo industriale che vede compromessi i suoi interessi.

A titolo esemplificativo, e perdonando la banalità, potrebbe accadere che un produttore di sigarette citi in giudizio uno Stato perché ha deciso di bandire la produzione o il consumo del fumo nel suo territorio, a beneficio della salute della sua popolazione.

Fra gli esempi che del tutto ambientalisti non sono, spunta la modalità d’estrazione delle famose “Tar sands” nell’ Alberta, in Canada, sabbie utilizzate in campo edile il cui processo estrattivo e tutt’alto dal pollice verde.

Nonostante il trattato si impegni ad avere un’ occhio di riguardo per l’ambiente e la salvaguardia della salute, i sostenitori del “no” puntano il dito contro l’accordo, sostenendo che il tutto sarò a solo appannaggio delle grandi multinazionali e lobby mondiali che si metteranno sotto le scarpe, in svariati modi, i principi basilari quali la salute, i diritti dei lavoratori, cittadini e consumatori.

Company di caratura mondiale che farebbero carte false pur di salvaguardare i lauti profitti.
La geografia economica di recente sta subendo cambiamenti radicali.

Il Regno Unito con un referendum ha votato per abbandonare l’Unione Europea ma vorrebbe mantenere il mercato unico. La Turchia, importante nodo fra Oriente e Occidente, ha di recente fatto sapere da fonti governative che potrebbe arrivare l’accordo sul libero scambio con la Russia.

Gli Stati Uniti d’America hanno un nuovo inquilino alla Casa Bianca che promette più muri che ponti. Gli stessi Stati Uniti che fanno parte dell’area di libero scambio Nafta, comprendente Messico e Canada.

Lo stesso Canada, con il trattato, potrebbe diminuire la dipendenza commerciale dagli stessi Usa, che spesso viene pesata anche nei tavoli della politica. E poi c’è la Cina, grande creditore americano che da tempo siede al tavolo dei grandi, che secondo gli addetti ai lavori diverrà entro il 2030 la prima potenza economica mondiale, disarcionando gli Usa.

Una battaglia impari, con i diritti dei lavoratori cinesi che rasentano lo zero e con la democrazia nemmeno all’orizzonte. La Russia sembra inoltre una buona spalla del gigante cinese, ma in una posizione comunque di alleato minore.

Da ultimo, ma non per ordine di importanza, il nuovo blocco dei paesi BRICS, (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che hanno addirittura costituito una loro banca parallela al Fondo monetario internazionale sentendosi non propriamente rappresentati.

E’ la New development bank, con il quartier generale a Shanghai.
Tutti grandi blocchi di alleanze militari ed economiche, sempre a “geometria variabile”.
Proprio per questo motivo il Ceta è visto come ingresso dalla “Back door”(porta secondaria) per un futura ridiscussione del TTIP, accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, arenatosi di recente nelle sabbie della protesta popolare e delle cancellerie europee.

Si potrebbe addirittura sospettare, a torto o ragione, che nei decenni a seguire l’area mondiale di libero scambio coincida con lo spazio della Nato, accordo di natura militare.

Cambiano spesso i confini, quelli territoriali ed economico-commerciali. Le frontiere, oggi più che mai, sono a geometria variabile. Quel grande sociologo polacco, Zygmunt Bauman, disse che “i confini ci danno sicurezza. Ci permettono di sapere come, dove e quando muoverci. Ci consentono di agire con fiducia”.

Per il Ceta la partita ancora non è chiusa del tutto. La palla passerà ai differenti 28 parlamenti statali europei che dovranno ratificarlo, dove ognuno chiederà qualcosa in cambio e di diverso nell’enorme condominio dell’ Unione europea, ognuno dentro i propri “confini”, in geografia chiamati “frontiere”, anche queste a geometria variabile.

*Maurizio Carta è un giornalista free-lance che si occupa di politica e che ha studiato alla London school of journalism. È di Siniscola e vive tuttora nella capitale britannica.