La scorsa settimana mentre guardavo i manifestanti sfilare per le strade delle grandi città americane, quel che mi colpiva era l’ampio e crescente divario tra gli Stati Uniti rurali e quelli urbani, e tra i loro orientamenti politici e le loro sensibilità.

Uno sguardo alla mappa dei risultati elettorali per singola contea ci mostra una manciata di mirtilli blu spruzzati su uno sfondo di marmellata rossa tra due coste blu. Donald Trump ha vinto il voto elettorale, Hillary Clinton quello popolare, e quindi il primo porta a casa l’elezione a presidente.

Ciò è dovuto in parte al fatto che, come evidenziato dal censimento dello scorso anno, “il 62,7 per cento della popolazione degli Stati Uniti vive in città che occupano il 3,5 per cento del territorio federale”.

In effetti un’analisi del Business Insider nel 2013 ha rilevato che “la metà della popolazione degli Stati Uniti è raccolta in appena 146 contee, su un totale di 3000”.

Quattordici Stati – alcuni nelle pianure centrali e nel profondo sud e pochi altri nel New England – non contengono nessuna di queste 146 contee, e altri 19 ne contengono una o due.

Assistiamo inoltre ad uno stillicidio della fiducia nelle istituzioni. Ci sono molte ragioni per cui la gente perde fiducia nelle istituzioni: perché concentrano e perpetuano il potere e il denaro nelle mani di pochi, spesso a scapito dei molti, e perché il loro peso economico e l’enorme influenza che esercitano li rende terreno fertile per la corruzione e il malaffare.

Un altro motivo è che probabilmente, come ha messo in evidenza il New York Times, queste istituzioni sono in gran parte localizzate nelle aree urbane, e quindi per molti elettori bianchi della classe operaia delle zone rurali del nord esse sono percepite come lontane ed estranee.

Il governo federale è a Washington, il centro finanziario è a New York, che è anche sede dei maggiori editori e delle grandi catene televisive e d’informazione. Hollywood è in California.

Le università della Ivy League sono concentrate in una manciata di stati del nord-est. Le maggiori istituzioni culturali – musei, teatri e compagnie teatrali, studi di registrazione e sale da concerto – sono nelle grandi città. Lo stesso vale per i giornali più autorevoli.

Due modelli migratori interni, complementari e simultanei, contribuiscono ad aggravare questo divario: mentre i giovani emigrano dalle aree rurali verso i centri urbani, nel 2009 un rapporto dell’USDA riferiva che “i membri della generazione del baby boom di età compresa tra i 45 e i 63 anni cominciano a trasferirsi sempre più in aree rurali o in piccole città di provincia”.

Questo fenomeno aumenta sia l’omogeneità dei luoghi quelli di partenza che quella dei luoghi di destinazione. I giovani (e quindi le grandi città) tendono ad essere più progressisti e più istruiti. I baby boomer (e quindi le zone rurali) sono invece più prudenti e conservatori. Un rapporto Gallup del 2015 ha rilevato che “nelle vecchie generazioni il rapporto tra conservatori e progressisti è di due a uno”.

A questa fuga dei cervelli va aggiunto il fattore diversità delle aree urbane. Come ha sottolineato il Times International Business nel 2011 “i bianchi non ispanici sono ormai minoranza in 22 delle 100 maggiori aree urbane del paese, tra cui quelle di Washington, New York, San Diego, Las Vegas e Memphis. L’inversione è alimentata da una crescita nelle popolazioni ispaniche e asiatiche – cresciute rispettivamente del 41 e 43 per cento – e dal fatto che il tasso di crescita nelle popolazioni bianche sia inferiore all’uno per cento”.

Inoltre le aree urbane, piuttosto che quelle rurali, sono magneti per i nuovi immigrati provenienti da altri paesi e come ha evidenziato un rapporto del 2014 del Pew Research Institute, l’esplosione della popolazione immigrata fornisce terreno fertile alle ansie dei bianchi rurali preoccupati per il disagio economico e alla ricerca di facili capri espiatori.

“Nel 1990 gli Stati Uniti avevano 19,8 milioni di immigrati – dice il Pew Research Institute – mentre nel 2012 quel numero è schizzato a 40,7 milioni, tra i quali 11,7 milioni di immigrati irregolari”.

Per questi motivi i bianchi rurali nutrono diffidenza verso le grandi istituzioni governative che si trovano in grandi città abitate da un grande numero di persone che non assomigliano a loro.

Gli abitanti delle grandi città, che vivono una vita cosmopolita in mezzo ad una popolazione di diverse origini che assomiglia ad un cono gelato color arcobaleno, possono a loro volta diffidare delle istituzioni per altri motivi, ma è meno probabile che diano la colpa di ciò alla diversità e alla società multiculturale, e sono quindi meno suscettibili al messaggio distruttivo di Donald Trump.

In un documento di lavoro pubblicato all’inizio di quest’anno, l’economista della Gallup Jonathan Rothwell sostiene che “questa analisi fornisce la prova evidente che coloro che vedono con favore Trump vivono in schiacciante maggioranza in zone isolate dal punto di vista razziale e culturale, e a parità di altri fattori il sostegno per Trump è elevato in zone con pochi laureati, lontane dal confine con il Messico, in quartieri che si distinguono per l’alto tasso di bianchi e in enclave segregate o caratterizzate da scarsi contatti con la popolazione nera, asiatica e ispanica”.

Viviamo in due Americhe divergenti, in contrasto ed in conflitto tra loro. L’America di Trump ha vinto questo primo round.

*articolo apparso sul sito web del New York Times lo scorso 14 novembre. Ecco il link per chi volesse leggerlo in lingua originale: http://www.nytimes.com/2016/11/14/opinion/trumps-rural-white-america.html