Per la stampa della Penisola è stato un semplice scalo tecnico a cui riservare al massimo un trafiletto nelle pagine interne e per la diplomazia una visita strettamente privata, ma in Sardegna è stato percepito da molti, forse non a torto, come uno degli eventi più importanti della sua storia contemporanea.

Xi Jinping, leader di quella che si sta affermando come una delle tre maggiori potenze globali ha realmente proiettato l’isola al centro dell’attenzione mondiale per una giornata.

In questa sede tuttavia non affronterò il tema già dibattuto della misura in cui le istituzioni locali sono riuscite a dare dell’isola un’immagine moderna e non stereotipata.

Preferisco infatti presentare una rapida visione d’insieme dei mutamenti geopolitici in atto nel mondo e dei quali proprio la Cina è uno degli attori di maggior spessore e rispetto ai quali ci auguriamo con tutto il cuore che noi sardi non rimaniamo semplici spettatori.

Nelle stesse ore in cui la folta delegazione cinese incontrava Pigliaru aveva luogo la visita di Stato di Barack Obama in Grecia; questa invero in tono piuttosto dimesso non tanto perché il presidente americano stia affrontando in queste settimane la fase di interregno che precederà il definitivo passaggio di testimone al suo inatteso successore Donald Trump, ma per il semplice fatto che gli Stati Uniti, loro malgrado, gestiscono oggi in coabitazione con altri attori quell’impegnativo ruolo di potenza globale che avevano esercitato in totale solitudine dall’ormai lontano 25 dicembre del 1991 (data in cui venne ammainata la bandiera rossa dal pennone del Kremlino, a certificazione del trapasso del regime sovietico e della conseguente fine dell’era bipolare).

Da allora, a dispetto delle previsioni troppo ottimistiche del politologo Francis Fukujama, che aveva teorizzato in un suo celebre saggio la “fine della storia” (esito della definitiva affermazione degli USA come unica superpotenza globale e della democrazia liberale quale solo sistema politico destinato a consolidarsi sempre più e quindi a diffondersi universalmente), molta acqua è passata sotto i ponti e le sorprese non sono mancate.

Il primo caldo benvenuto nel nuovo secolo è stato dato al mondo intero in diretta televisiva con l’improvviso riappalesarsi sulla scena di un attore antica spina nel fianco dell’Occidentale e che fino a quell’11 di settembre di 15 anni fa sembrava definitivamente assopito: quell’islam politico che, pur sotto varie forme e denominazioni non ha mancato di ricordarci negli anni che sono seguiti di essere ancora vivo, vegeto e bramoso di rivendicare la propria volontà di supremazia su quello che i musulmani chiamano Dar al Harb o “territorio della guerra” (ovvero quella parte di mondo non ancora assoggettato alla legge coranica e di cui ognuno di noi occidentali è più o meno consapevolmente espressione).

Poi la suddetta storia, che come sosteneva Cicerone è maestra di vita, ha voluto riservare al politologo nippo-americano un ulteriore schiaffo morale attraverso l’affermarsi delle tigri asiatiche quali nuovi e rampanti protagonisti dell’economia globale, a partire ovviamente proprio dalla Cina ancora nominalmente comunista.

L’antico impero di mezzo è riuscito infatti a sperimentare, in concomitanza con la sua esplosione sia demografica che produttiva, un ibrido solo apparentemente incongruo rispetto all’ideologia introdotta da Mao Tze-tung, in cui un ampio processo di liberalizzazioni all’interno di un sistema economico oggi tendenzialmente capitalistico convive con il rigido controllo centralizzato esercitato (in una macroscopica assenza di pluralismo politico), da quel partito e da quel governo attualmente entrambi guidati proprio dal nostro gradito ospite per un giorno Xi Jinping.

Quello che però distingue la Cina di oggi rispetto al suo millenario, glorioso passato imperiale, è la volontà di estendere il proprio raggio d’influenza al di là degli altri Paesi di tradizione confuciana tenuti per secoli in condizione di vassallaggio, per affermarsi come attore su scala globale in virtù dell’acquisito potere economico.

E’ così che si spiega l’importanza crescente degli investimenti nel continente africano (anche se stretti rapporti diplomatici, per evidenti motivi ideologici, erano già stati avviati con molti Stati dell’area già in epoca maoista), oggi giustificati dalla necessità di trovare da una parte fonti energetiche e materie prime attraverso cui sostenere le proprie industrie e dall’altra nuovi mercati verso cui convogliare una produzione manifatturiera in costante crescita.

La presenza di più di un centinaio di rappresentanti del mondo imprenditoriale e politico al seguito del leader cinese durante la sua visita a Chia e Nora indica l’evidente volontà di Pechino di allargare le opportunità di interscambio commerciale a mercati finora inesplorati.

Da questo la Sardegna non potrà che trarre grandi e forse inattesi vantaggi, a condizione che imprese e classe politica isolane siano in grado di cogliere le straordinarie opportunità insite nell’allargamento degli orizzonti economici da parte di Pechino e vi promuovano quindi l’immagine dell’isola in modo sistematico, in modo tale da rendere il “made in Sardinia” appetibile per gli immensi mercati dell’Asia orientale.