Mi sorrise e col suo accento romanesco soggiunse: «Voi sardi siete assurdi. Non vi integrate mai. Dove ci sono due sardi c’è sempre il famoso circolo che gli fa da casa. Si può dire che non usciate mai dalla vostra isola. Siete come chiocciole e sempre un pochino melanconici».

Ero abituato ed anche un po’ affezionato a queste sue impertinenze e sfottò. Dolcissima e strega al tempo stesso. Non me la presi. Non so bene il perché ma volli provare a raccontarle cosa è per noi la Sardegna, e con enfasi, tutto d’un fiato le dissi:

«Capisco quanto sia difficile, se non addirittura impossibile, spiegare e far comprendere a chi non lo è cosa significhi essere sardi, cosa un sardo sente nell’anima. Già, non ti meravigliare, nell’anima, poiché noi non siamo sardi solo per l’anagrafe, lo siamo soprattutto perché sentiamo che dentro di noi la Sardegna vive e pulsa, scorrendo fra le membra, portata dal sangue. Ti dirò di più, credo che la nostra anima aderisca al nostro corpo assumendo la forma stilizzata del sandalo: Sandalia, appunto.

Mi chiedo come potrei mai riuscire a farti capire cosa sia e come percepiamo noi la poesia e la letteratura sarde. Queste non nascono nelle teste degli autori. I nostri poeti e letterati non si sedettero un bel dì allo scrittoio per comporre le loro opere, col desiderio di farci innamorare. No! Qui non avviene così: Grazia Deledda o Muntanaru colsero Melchiorre, le sorelle Pintor, gli struggenti e meravigliosi Cantos de sa Solitudine nei campi, fra le rocce, fra i balzi dei fiumi e nei boschi.

Qui da noi la letteratura nasce dalla terra, come una qualsiasi altra pianta; sbuca da lì e si innerva lungo le gambe di chi dalla Sardegna è prescelto per esporla in forma scritta, in versi o in prosa. Prende posto nella caverna dei sentimenti e delle emozioni e poi da qui sortisce fuori per parlare sardo ai sardi. Non è mai poesia o letteratura di Grazia Deledda, di Sebastiano Satta, di Atzeni, è il logos della terra di Sardegna. E quest’isola delle sue perle è gelosissima.

Come potrei riuscire a spiegarti che queste opere letterarie, ma anche quelle figurative di Biasi o Spada, sono intrise dei sapori, dei colori, delle emozioni e dei profumi di Sardegna. Sciola, Nivola, Ciusa non sono forse loro stessi rocce dell’isola? La musica che sortisce fuori dall’organetto diatonico suonato alle feste e sagre dei paesini dell’entroterra è il canto sincopato dei nostri boschi. I nostri stessi balli sono il circolo che si crea intorno al focolare, e narrano in movimenti sincroni i Contos de foghile degli anziani.

Il canto a tenores è l’eco che nasce dai nostri monti, antichi come il mondo, e che percorre le valli per andare incontro alle genti nei villaggi. È la loro voce: Gorropu, Lanaitto parlano sardo. Hai mai provato ad ascoltarla? E se la letteratura rappresenta l’anima, i costumi, quelli bellissimi indossati da ragazze brune come una notte stellata di agosto, che solo a guardarle ti commuovi, sono la pelle che riveste l’isola e noi sardi. In tutto ciò c’è la Sardegna.

Hai mai notato che negli assembramenti di persone, fra la moltitudine di vessilli e bandiere che garriscono al vento, quella che sempre risalta per eleganza e bellezza reca l’effige gloriosa di quattro mori con la benda? Ti sei mai chiesta il perché? Noi la portiamo cucita sulla pelle, e l’abbiamo dentro di noi anche quando non la sventoliamo, tanto ne siamo fieri. Fieri di portare inciso dentro nel cuore lo stesso vessillo che ha avvolto le idee e i corpi di Gramsci, Lussu, Berlinguer e tantissimi altri che hanno dato lustro a questa folle terra.

Ma come faccio a raccontarti dei profumi di lentisco, mirto, asfodelo, corbezzolo, capperi che intridono i nostri abiti? Rinuncio a descriverti la gioia e il senso infinito di libertà e solitudine che si prova andando in estate per i campi riarsi dal sole o immersi nella bruma in inverno; non riesco a parole a trasmetterti il piacere di rubare a questa terra dura ed avara il cardo e l’asparago selvatico, come potresti mai riuscire a sentirla questa gioia, tu che calpesti solo l’asfalto delle città?

I nostri fiumi sono il sangue vivo che scorre nelle nostre vene. E il nostro vino è il fiume violento e inebriante di Lethe che fluisce festoso nelle nostre gole. Non senti un suono di natura selvatica al solo nominarli? Flumendosa, Cedrino, Rio Mannu, Codula de Luna; Nepente, Cannonau, Malvasia. Come potresti tu avvertire quel fremito che sale lungo le membra? I nostri colli sono incoronati da piccoli villaggi di pastori, perciò sono i re e le regine delle nostre valli e dei nostri mari: Osilo, Castelsardo, La Plassas. Gli stessi nomi dei paesi hanno un non so che di magico: Sarule, Sorgono (che dà l’idea di un miracolo che si erge dal terreno), Laconi, Orgosolo, Mamoiada, Luogosanto (santo per la gratificazione ricevuta di sorgere al centro di una delle zone più belle del territorio, la cui vista digrada dalla collina verso un mare color dello smeraldo). Le nostre terre hanno un suono inebriante: Nurra, Trexenta, Marmilla, Barbagia, Gallura, Campidano. Che bello pronunciarne il nome per udire il suono delle vocali e delle consonanti che si spande nell’aria accompagnando il belato delle nostre greggi e il canto della natura.

Puoi tu comprendere il fascino ancestrale delle sagre paesane, quando le splendide centenarie, con incisa sulla pelle incartapecorita tutta la storia dell’isola, espongono ai visitatori i propri manufatti che profumano di lavanda o di pane fresco? Non puoi sapere quanto sia bello sperdersi nell’incanto del suono delle voci dei paesani; quel suono magico che evoca un passato millenario inciso dal vento sulle pietre dei monti di Gallura o del Sarrabus o del Gennargentu (la porta d’argento che accede al paradiso), e che echeggia sull’Ortobene, cogliendoti mentre lanci uno sguardo estasiato sul cuore pulsante dell’isola.

Incappare nella magica danza selvaggia dei Mamutones, dei Turpos, dei Boes e dei Merdules. E magiche sono pure le grotte che cullano il sonno agitato dei nostri miti e delle leggende: le domus de janas, le tombe dei giganti, i menhir, i dolmen sono pietre che vibrano di vita. Non so descriverti il profumo che emana dai viottoli dei paesi percorsi da sa Filonzana, che recide il filo della vita, dalle Panas, su Surbile, l’Ammuttadori e i pianti che echeggiano fra muri di sassi e fango per la visita nottetempo della Femina Accabadora.

Gli stessi sassi nuragici che tengono in piedi le nostre antiche cattedrali, sparse fra i campi di Barumini o Sant’Antine, sono chicchi di riso ambrato accarezzati dal cielo. I tralci di vite da cui pende il dionisiaco frutto cantato da D’Annunzio.

Come posso trasmetterti le emozioni che questa avara, dura, dolce e poetica terra suscita in noi sardi? Come renderti partecipe della gioia che pervadeva noi bambini quando l’auto di mio padre imboccava la strada che sbuca sull’arenile di Porto Conte, dal poetico nome di Baia delle Ninfee? Quel filo di mare azzurro che si intravede in lontananza, quel gigante che fa da guardia all’insenatura; o spiegarti l’agitazione che tutti noi pervadeva in prossimità delle grandi giare colorate che contornavano la provinciale verso Platamona, il mare di Sassari.

L’inquietudine che coglie il visitatore alla vista della Sella del Diavolo, all’imponenza maestosa di Tavolara, alla radiosa dolcezza dell’arcipelago de La Maddalena, al profumo di selvatico che intride le narici percorrendo i viottoli sterrati dell’Asinara. Proprio non riuscirei a farti udire il silenzio profondo della solitudine dei pastori negli ovili sperduti fra rocce dure come il diamante. O l’infinita solitudine delle chiesette sperse nel verde di valli sperdute.

Rinuncio pure a descriverti la meraviglia che si coglie nello smarrirsi per boschi e per conche, o lo stupore che ancor oggi assale ogni sardo quando da Gorropu procede verso le acque tumultuose di Flumineddu, per infine tuffarsi nell’azzurro di un mare che si confonde con il cielo, tanto da non riuscire a distinguere la linea irreale che li tiene discosti.

Non puoi capire ed io non posso far altro che arrendermi all’impossibilità di farti partecipe pienamente di questa seduzione che si appropria delle genti Shardane che popolano l’isola. Un giorno regalai un bellissimo libro ad un sardo che abita nel continente – anche questo dovrebbe suggerirti quanto diversi e lontani da noi siate voi continentali – un bellissimo libro che parlava di queste cose.

Con gli occhi resi umidi dall’emozione mi disse: “un sardo piange quando lascia l’isola, per il dolore che gli procura l’esilio dall’Eden; piange lontano dall’isola, per la nostalgia che permea ogni poro della sua pelle; piange quando vi fa ritorno, per l’emozione di ritrovare quest’incanto. Ma quanto è dolce questo pianto, ha il sapore del miele di corbezzolo e la consistenza del vino rosso.” La nostra cultura è intrisa di questa profonda melanconia».

Tacqui!

Mi guardò con meraviglia, mi sorrise, mi abbracciò e baciò. Andammo a prendere un caffè insieme.