Su una cosa Renzi ha ragione: il bicameralismo perfetto italiano è un unicum in Europa.

E la sua applicazione – “la degenerazione delle consuetudini”, come amava dire un mio docente universitario – lo ha reso ancora più farraginoso, snaturando la natura del Senato e attribuendo sempre di più al governo il ruolo di metronomo della fase legislativa.

Questo basta per superare, con un colpo di spugna, un così forte indirizzo dei padri costituenti?

Facciamo un attimo la storia.

Storicamente il bicameralismo nasce con la cultura liberale del XIX secolo, che garantiva ai diversi corpi dello Stato una ripartizione del potere: il re rappresentava l’elemento monarchico, la Camera elettiva quello democratico e il Senato quello aristocratico.

Il bicameralismo italiano è stato scelto nel 1948 per ripartire la sovranità democratica in due Camere, onde evitare possibili “dittature della maggioranza”.

La proposta di un Parlamento bicamerale era stata avanzata nei lavori della seconda Sottocommissione dai due relatori Mortati e Conti, democristiano il primo e repubblicano il secondo.

Secondo Mortati, il Senato avrebbe dovuto garantire gli interessi dei territori, mentre la Camera la rappresentanza politica: da una parte, dunque, c’era la Camera dei deputati, titolare di una “rappresentanza generale del popolo indifferenziato”, dall’altra il Senato, con la volontà dello stesso popolo manifestata
attraverso il suffragio universale, “ma in una veste diversa”, basata sulla rappresentanza di categorie.

L’idea dei costituenti era di considerare due elementi fondamentali della loro tradizione: le autonomie dei territori e i corpi intermedi, intesi come rappresentanza di “certi interessi sociali più eminenti e importanti: per esempio, la cultura, la giustizia, il lavoro, l’industria, l’agricoltura”.

È per questo che in un primo tempo raggiunsero un accordo «sulla composizione mista del Senato», che prevedeva i 2/3 dei senatori da eleggere tra le categorie professionali e 1/3 dei membri nominati dai Consigli regionali.

Questa intuizione però non ha avuto seguito, sia perché le Regioni non esistevano ancora, sia perché le categorie professionali si richiamavano all’esperienza delle Corporazioni fasciste, sia per la sfiducia reciproca tra le forze politiche dopo la rottura del Governo tripartito tra Dc, Psi e Pci nella primavera 1947.

La scelta a favore del bicameralismo paritario è servita a reggere i veti incrociati delle forze politiche: per l’area repubblicana, era la condizione per superare il centralismo dello Stato in favore delle Regioni; per la tradizione liberale, rappresentata nell’Assemblea costituente da Einaudi, significava raffreddare il procedimento legislativo e meditare le decisioni da assumere.

Lo stesso De Gasperi era a favore del bicameralismo, perché allontanava il rischio che nelle elezioni del 1948 i comunisti ottenessero la maggioranza nei due rami del Parlamento.

Invece le sinistre (comunisti, azionisti, socialisti) erano favorevoli al monocameralismo, ma accettarono a denti stretti la scelta del bicameralismo, ritenendolo una buona garanzia dell’Ordinamento contro i regimi di destra.

Nel corso degli anni il bicameralismo perfetto all’italiana ha fatto emergere alcuni pregi e molti difetti: il “raffreddamento del procedimento legislativo” ha permesso, secondo alcuni, di garantire la qualità della legislazione, e alle maggioranze che approvavano disegni di legge in uno dei due rami del Parlamento di ripensarci.

Tuttavia il bicameralismo perfetto è rimasto un unicum in Europa a causa della farraginosa e costosa modalità di approvazione da garantire a tutte le leggi; inoltre, è opinione di molti che una Camera, lavorando in prima lettura, è meno rigorosa, perché sa che potrà essere corretta dall’altra.

A distanza di molti anni, la rilettura dei lavori della Costituente fa emergere che il sistema bicamerale perfetto degli articoli 55 e seguenti della Costituzione è stato «il compromesso infelice» di posizioni politiche inconciliabili tra loro.

Secondo la maggior parte degli storici e dei politologi, la struttura del Parlamento è nata «non sulla base di un disegno preciso, ma, nella sostanza, per una serie di no: no alle ipotesi monocamerali; no al Senato delle Regioni; no al Senato corporativo», sicché abbiamo un Parlamento che è strutturalmente bicamerale, ma che funzionalmente è più vicino al modello unicamerale.

Ma c’è di più: il Senato, nato come «inutile doppione» — così lo definiva negli anni Settanta Mortati — è stato un accordo politico che includeva il collegio uninominale e la soglia del 65%.

Da quando il referendum del 1993 ha eliminato il quorum del 65%, il Senato ha perso la sua identità originaria pensata dai costituenti.

Anche le successive innovazioni istituzionali — rafforzamento delle autonomie locali nel 1993 con l’elezione diretta del sindaco, riforma elettorale regionale nel 1995, primo intervento sul Titolo V nel 1999 per l’elezione diretta del Presidente della Regione e per l’autonomia statutaria, secondo intervento sul Titolo V nel 2001 con le nuove competenze — hanno spinto a ricercare una nuova identità da inserire nella Costituente.

Fin qui la storia e le domande da porsi sono almeno tre.

Sono venuti meno i motivi che portarono i costituenti a varare il sistema del bicameralismo perfetto?

I problemi che questo sistema ha prodotto, derivano dalle degenerazioni imposte dai partiti e dalla legge elettorale snaturata o sono propri del sistema stesso?

I vantaggi che avremmo nel passare al monocameralismo proposto dalla riforma Renzi sono maggiori rispetto agli svantaggi legati alla formazione del processo democratico?

Anche a questo gli elettori dovranno rispondere il 4 dicembre. Non si vota su Renzi ma su come cambiano le istituzioni che regolano e regoleranno la vita di tutti noi.