La sua voce era ormai un sussurro coperto dallo sbuffo affannoso del respiratore artificiale.
A novembre 2014, con una lettera pubblicata da Repubblica, Walter Piludu annunciò che il suo viaggio lungo il percorso accidentato della malattia sarebbe finito il giorno in cui avesse perso l’ultimo alito della parola.

<Perché ho deciso di legare alla voce il punto finale della mia vita? Anche se è molto flebile è ancora il legame con i miei affetti. E poi, senza poter parlare come potrò avvisare il mio badante che ho anche soltanto il prurito al naso?».

Così – con un elenco ragionato delle difficoltà di un malato di Sla – si apriva la lettera che l’allora 64enne, ex presidente della Provincia di Cagliari, aveva scritto col suo computer a comandi oculari al Papa e «ai leader delle forze presenti in Parlamento» per richiamarli su un tema «personale e generale: quello del fine vita».

Ricordò – in tempi in cui una proposta di legge faceva la muffa alla Camera – che il tema dell’eutanasia non è legato alla disperazione, bensì alla liberta. «Devo poter decidere quando morire».

Noi de L’Unione, a quel tempo, decidemmo di fare su quella lettera e quella storia l’apertura del giornale domenicale, dedicando due pagine.

E io scrissi un editoriale che ripropongo come omaggio a una persona che ha dato prova di coraggio e coscienza civile. Comunque la pensiate.

(Tratto da L’Unione Sarda del 30 novembre 2014)

di Anthony Muroni

Distratti come siamo da una quotidianità fatta di impegni “improrogabili” sempre più vacui, un altissimo grido di dolore come quello di Walter Piludu rischia di passare inosservato o di non essere preso nella giusta considerazione.

Il diritto del malato a scegliere una dignitosa fine della sua esperienza terrena è un tema non più solo etico ma anche sociale e politico.

E l’Italia, che ha da decenni imboccato la strada di una Repubblica per niente laica, è in ritardo rispetto a una definitiva regolamentazione del tema.

I casi Welby ed Englaro hanno prodotto polemiche che hanno avuto l’effetto di svilire il tema.Perché in questo Paese non si è nemmeno riusciti a mettersi d’accordo sulla definizione di “fine vita” e malattia terminale.

La sospensione dei farmaci può essere definita eutanasia?

E l’astensione del medico, dietro precisa volontà del malato, da misure come la nutrizione artificiale e la ventilazione meccanica, come dev’essere configurata?

Negli Usa si è a lungo discusso sulla Pianificazione anticipata delle cure, nella quale il paziente ha parte attiva: assieme ai curanti e ai familiari prende decisioni a proposito dei trattamenti che intende consentire o rifiutare.

È una decisione che implica un confronto coi propri valori morali e di riferimento: valori che appartengono al singolo e non allo Stato.

Certo, serve una giusta e completa informazione medica, prima di prendere decisioni definitive. E sarebbe giusto che le stesse fossero poi comunicate e discusse con i parenti e le persone care.

Il sasso lanciato nello stagno da Walter Piludu deve far tornare la discussione all’ordine del giorno, anche e soprattutto con riferimento alla Sla: una malattia tremenda, che si consuma – dopo aver progressivamente paralizzato l’ammalato – con un’insufficienza respiratoria che va contrastata solo mediante la ventilazione assistita.

Il vero dilemma, racconta chi ha avuto la sfortuna di assistere un malato terminale fiaccato da questa sindrome, è legato proprio all’interruzione del trattamento, una volta avviato.

E qua si torna alla necessità di pensare a una normativa che regolamenti l’inizio di un trattamento non voluto o la richiesta consapevole di disconnessione.

Quest’ultima non significa necessariamente la manifestazione di una volontà di morire ma un ritiro del consenso al trattamento medico invasivo.

Da qualsiasi parte la si guardi, una questione così delicata è quasi un peccato metterla in mano a una classe politica che spesso si mostra capace di annegare in due dita d’acqua.

Semplificando, se per un credente la vita appartiene a Dio, per un laico liberale non è certo di pertinenza dello Stato.