Quando parliamo di inquinamento, impatto ambientale e sostenibilità ci riferiamo quasi sempre a industrie, trasporti e smaltimento dei rifiuti.

L’immagine che abbiamo dell’agricoltura è quella di una pratica innocua, a contatto con la natura, grazie alla quale sulle nostre tavole sono sempre presenti frutta e verdura.

Siamo costretti a vivere nelle città e le fotografie di sterminati campi di cereali o di vigneti a perdita d’occhio ci tranquillizzano e ci fanno sorridere perchè c’è un senso di “natura”, di pace e ordine che nella vita urbana di tutti i giorni tende a mancare.

Non sappiamo niente dei procedimenti agricoli, della stagionalità dei prodotti, dei periodi di semina e raccolta però vediamo il nostro cesto di insalata in tavola e in televisione campi verdissimi e floridi dove “contadini” con cappelli di paglia raccolgono i prodotti che la terra gentilmente gli dona.

Se guardiamo una fabbrica che sputa fumi tossici storciamo il naso e pensiamo che sia davvero una disgrazia ma quando l’occhio si posa su un frutteto intensivo rimaniamo un po’ affascinati da tutte quelle piante e non immaginiamo neanche che la sua coltivazione possa avere degli impatti sull’ambiente.

Questa visione è l’eredità del sistema di produzione agricolo che era in vigore fino alla metà del secolo scorso, la cosiddetta Agricoltura Tradizionale, venuta meno con il sopraggiungere di fertilizzanti chimici e meccanizzazione delle lavorazioni.

La civiltà contadina era fondata sul reverenziale rispetto delle leggi della natura.

Una storia che inizia diecimila anni fa, quando da nomadi i nostri antenati divennero stanziali, e che per tutto questo tempo ha visto gli uomini lottare strenuamente contro inondazioni, siccità e tutte le asperità che le stagioni riservano alle coltivazioni, sempre con gli stessi mezzi.

Infatti il progresso in agricoltura è sempre stato lentissimo e fino a quando l’unico mezzo di lavorazione del suolo è stato il lavoro manuale, svolto sia da uomini che da altri animali costretti a tirare carri o aratri, le possibilità e le tempistiche sono rimaste invariate.

I limitati mezzi a disposizione contribuirono a mantenere un rapporto di subordinazione degli uomini verso la natura il cui potere non era contrastabile e andava anzi assecondato.

Basti pensare agli antichi sistemi di potatura che non prevedevano rigidi schemi a cui piegare le piante ma semplicemente seguivano il portamento delle stesse.

Non c’era la possibilità di agire sul paesaggio in modo immediato come oggi, la strutturazione del territorio in campi avveniva in periodi lunghissimi con sforzi che oggi non sono neanche immaginabili.

Un’altra caratteristica dell’Agricoltura Tradizionale era la quantità di “addetti ai lavori” presenti nel settore, di molto superiore alla richiesta odierna, anche se la popolazione era decisamente inferiore.

Si trattava però di una manodopera dalle capacità eterogenee, tutt’altro che specializzata.

Quasi tutto era ricavato all’interno della fattoria, in quanto i costi economici di trasferimento di merci, attrezzature e prodotti erano altissimi e sostenibili soltanto da una fascia di popolazione.

I contadini di un tempo infatti dovevano essere in grado di mantenere la propria autosufficienza padroneggiando diversi mestieri, ma riuscivano anche a costruire un rapporto con la natura e i suoi ritmi, vedendola non come uno strumento di produzione di ricchezza ma rispettandola come fonte di vita e facendosi custodi di un sapere frutto della stratificazione culturale avvenuta nei secoli.

Con il tempo tuttavia, e in particolare dopo la fine della seconda guerra modiale, la “cultura” si è trasformata in semplice coltura.

Il settore agricolo oggi non richiede grandi quantità di operatori, resi superflui dalle macchine e dalle conseguenti pratiche agricole.

Un singolo uomo oggi può occuparsi di una tenuta di dieci ettari a vite e olivo attraverso l’utilizzo di macchine e trattamenti fitosanitari.
In una giornata si possono lavorare anche più di cento ettari di terreno.

Ne è conseguito un allonatanamento dai ritmi naturali e la meccanizzazione dei processi produttivi.

Si è persa la conoscenza fondata sull’osservazione dei fenomeni naturali e sulla tradizione, perchè non è più richiesta all’operatore, che invece deve saper manovrare alla perfezione le macchine per evitare danni.

Veri contadini non esistono più da un pezzo, chi decise di rimanere nelle campagne si è fatto piacevolmente coinvolgere dai nuovi metodi di produzione, abbracciando le “comodità”.

Oggi si parla di impreditori agricoli e operai.
L’industria agricola.

Ed infatti si tratta di fabbriche.

L’aspetto dei campi è completamente cambiato, si è passati dall’adattarsi alla conformazione del terreno all’adattamento del terreno alle esigenze
delle macchine (lievi pendenze, nessun ostacolo, sesto d’impianto fitto).

La commercializzazione del prodotto, anziché l’autoconsumo, diventa un’attività centrale, come per ogni altro tipo di azienda, le estensioni di suolo coltivato diventano enormi, gli operatori si desensibilizzano, e viene richiesta una grande quantità di energia e prodotti dall’esterno, al contrario di quanto accedeva in precedenza.

In una coltivazione moderna le piante vengono considerate alla stregua di ingranaggi componenti una catena produttiva.

Il suolo non è altro che un supporto per le radici, e per questo viene sottoposto a un fortissimo sforzo per massimizzare la resa delle coltivazioni, perdendo materia organica attraverso irrigazioni continue e cercando di reintegrarla attraverso la “fertilizzazione” chimica.

L’irrigazione artificiale con acqua potabile, spesso addizionata di fertilizzanti, rappresenta oltre a uno spreco enorme, la necessità di produrre anche più raccolti in un anno (a seconda delle varietà coltivate e della zona) per compensare i costi sempre crescenti legati all’insostituibilità di certi prodotti chimici e alla necessità di rifornirsi dall’esterno che ogni azienda ha.

La direzione dell’impianto segue sempre la massima pendenza (i trattori si ribalterebbero se l’inclinazione fosse laterale) e pertanto in concomitanza di precipitazioni questo terreno impoverito e quasi sterile si dilava con facilità essendo incapace di trattenere l’acqua.

La meccanizzazione ha imposto l’eliminazione di tutte quelle barriere naturali che sono macchie e boschetti, che un tempo delimitavano i confini, per rendere fruttuosa l’operazione nel campo; si riducono così le protezioni naturali e la biodiversità e aumenta la necessità di ricorrere a trattamenti contro parassiti e infestanti.

La separazione della zootecnia dalle aziende agricole, in linea con il processo di frammentazione spaziale delle attività un tempo praticate nello stesso luogo, ha comportato una riduzione dell’utilizzo di concimi organici e insieme all’innalzamento delle esigenze di resa delle piantagioni ha contribuito alla diffusione dei concimi di sintesi.

La fertilizzazione chimica (anche se bisognerebbe parlare di integrazione chimica perchè non è certo una pratica che aumenta la fertilità dei suoli!) incrementa il ciclo di azoto e zolfo facilitando così la dissoluzione di composti organici disponibili e il fenomeno erosivo e di dilavazione.

La “disinfestazione”, cioè la difesa della produzione da infestanti e parassiti, distrugge sia le specie “nocive” che quelle ausiliarie, e contribuisce all’inquinamento delle falde acquifere.

Grazie alla partenogenesi, le specie cosiddette nocive hanno un potenziale biologico molto più alto delle specie ausiliarie e cicli vitali brevissimi e riescono a sviluppare una resistenza genetica ai pesticidi.

Le aziende agricole sono così costrette a comprare sempre nuovi prodotti di disinfestazione dall’industria chimica in un circolo vizioso che aumenta i costi di anno in anno, contribuisce alla decrescita e perdita totale di alcune specie ausiliarie, fortifica la resistenza delle specie “dannose” e addirittura ne crea di nuove.

L’agricoltura moderna è strettamente legata alle esigenze di mercato e la scelta delle varietà da coltivare avviene solo in base alle tendenze del momento, senza tenere in considerazione tradizioni locali e la naturale “vocazione” di un territorio.

Gli organismi transgenici rappresentano benissimo la situazione descritta fin qui, dipendenza da poche grandi industrie, il mercato che decide cosa produrre e in che quantità e i danni irreparabili che vengono arrecati all’ecosistema.

Ma la conseguenza più evidente di quanto detto finora sta forse nella perdita di biodiversità documentata nel ventesimo secolo: oltre il 90% delle specie coltivate.

Il restante 10% è composto dalle quindici specie vegetali utilizzate per l’alimentazione umana.

(*tratto dal sito www.promiseland.it)