C’è un che di preoccupante e assurdo nel film che siamo da qualche tempo costretti a vivere e nel quale siamo tutti attori più o meno consapevoli.

Con lo stesso identico schema delle tifoserie calcistiche – dagli ultras che frequentano le curve a quelli che affollano i bar dello sport e le arene virtuali sui social network – gli adepti dei partiti politici, tradizionali o nuovi che siano, paiono disinteressati alla partita in corso, alla qualità del gioco, all’eticità della proposta e al merito delle vicende.

Conta solo il risultato finale. E a volte nemmeno quello. Nel senso che l’importante è mostrare spirito di appartenenza e denigrare la squadra avversaria. Anche negando verità evidenti e diventando sordi o ciechi.

Tutto viene digerito e tutto sembra consentito.

Al campionario di reciproche denigrazioni e insulti, ai quali i due poli da vent’anni in campo sullo scenario italiano ci hanno ormai abituato, si è aggiunta la tradizionale irrequietezza di qualche movimento identitario sardo.

È partendo da questo mutamento della coscienza del vivere civile, una scuola di pensiero che prevede il bene pubblico e non quello di parte come riferimento unico del personale preposto ad amministrare le istituzioni, che assistiamo a spericolate e interessate equazioni logiche.

Se parli con qualcuno di sinistra o destra, sei pronto a venderti, se scegli come occasionale o abituale interlocutore un qualche indipendentista sei pronto a raccogliere eredità o a proporti come leader, senza passare da non si sa quale investitura.

Qual è l’intento? Dimostrare che la squadra di appartenenza non si discute e che a essa possono essere perdonati eventuali falli da ultimo uomo, scorrettezze in area di rigore e persino gli insulti agli arbitri.

Ma l’importante è che vinca. Altrimenti i tre punti se li prendono gli avversari.

La politica non si gioca su un campo di calcio. La politica vive di un confronto aperto e senza steccati imposti da oligarchie che non vogliono perdere il loro potere di interdizione.

In Sardegna il confronto non è bipolare ma aperto a diverse idee sul futuro.

Ognuno deve sentirsi libero di scegliere il proprio, senza più firmare deleghe in bianco.

Occorre basarsi sui programmi e sulla credibilità di chi li propone.

Il tempo degli appelli fideistici è finito.