Ci sono sardi che, per colpa dei Savoia, persero la vita o conobbero la prigione o l’esilio. Ci sono sardi che, grazie ai Savoia, fecero una brillante carriera.

E’ il caso del barone Giuseppe Manno, che nel corso della sua lunga vita ricoprì molteplici incarichi. E forse ciò non è casuale.

Egli fu un acerrimo nemico dell’autonomia dell’ìsola, al punto che nel 1848 gli fu affidato l’incarico il presidente della commissione per l’assimilazione della Sardegna agli Stati di terraferma dopo la “fusione perfetta” dell’anno precedente.

Manno nacque ad Alghero il 17 marzo del 1786 da Antonio e da Maria Diaz. La sua famiglia apparteneva alla piccola nobiltà cittadina; il padre, capitano del porto, all’epoca della rivoluzione antifeudale avevav avuto simpatie per il movimento patriottico.

Dpo gli studi primari nelle scuole algheresi si iscrisse al collegio dei nobili di Cagliari. Da adulto parlerà di quella esperienza nel “Il giornale di un collegiale” (Torinu 1839). Successivamente frequentò la facoltà di giurisprudenza presso la quale si laureò il 25 aprile del 1804.

Egli aveva una buona cultura umanistica, conosceva il francese e l’inglese e sapeva suonare discretamente il violino. Poiché aveva frequentato la scuola successivamente alla riforma di Bogino del 1760, aveva studiato e conosceva anche l’italiano.

Avvocato giovane e brillante, fu subito appezzato nell’ambiente dei magistrati della Real Udienza e dei funzionari governativi: il 4 dicembre del 1808 fu nominato sostituto sovrannumerario dell’avvocato fiscale e il 23 novembre del 1812 sostituto dell’avvocato fiscale patrimoniale. Nel 1811 iniziò la sua collaborazione con il giornale filobritannico “ Foglio periodico di Sardegna” di A. Palmedo.

In quello stesso anno, in una sua memoria– letta il 24 novembre nella “adunanza ” della “Reale Società agraria ed economica” di Cagliari, “Il pregiudizio dell’abitudine contrario ai progressi dell’agricoltura in Sardegna” –, Manno auspicava, appoggiando le tesi fisiocratiche di Francesco Gemelli, la chiusura delle terre come fattore di sicurezza e di“proprietà vera”.

Cominciò, quindi, a frequentare la corte sabauda, che nel 1799 si era trasferita a Cagliari a causa dell’invasione napoleonica del Piemonte, e entrò nell’entourage del vicerè Carlo Felice.

Nel mese di giugno del 1816, quando le truppe francesi si erano ormai ritirate dal Piemonte, Carlo Felice chiese al Manno di accompagnarlo, come segretario privato, nel suo viaggio di ritorno a Torino: durante questo viaggioessi passarono nelle cità più importanti dei regni della penisola italiana (Napoli, Roma, Firenze, Modena, Padova, Venezia, Milano); giunsero a Torino nell’estate del 1817.

Risalgono a questa epoca quelle che lui stesso avrebbe definito argutamente la sua prima “scappatella letteraria”: le “ Lettere di un sardo in Italia 1816-1817”, 66 lettere eleganti e garbate dove parlava delle sue impressioni, inviate a un amico di fantasia, ispirate ai modelli della letteratura di viaggio di quei tempi.

Poiché non era particolarmente soddisfatto dell’opera, decise di non farla stampare (è stata pubblicata postuma, con un’introduzione di A. Accardo e a cura di A. Orunesu e V. Pusceddu, in Quartu Sant’Elena nel 1993).

A Torino, il primo ottobre del 1817, fu nominato primo ufficiale della Segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna; il 6 dicembre dello stesso anno ottenne l’onorificenza di cavaliere dell’ “Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro”.

Una svolta nella carriera dell’uomo – che nel mentre era stato promosso (25 febbraio del 1818) giudice della Real Udienza di Cagliari – vi fu con la nomina, voluta da P. Balbo nel mese di settembre del 1818, a ministro degli Interni con l’interim della direzione della segreteria di Stato per gli Affari di Sardegna. Iniziò allora una collaborazione con Balbo che durò 20 anni.

Nel 1818 Balbo, in una sua memoria sui diritti dei feudatari iberici non residenti in Sardegna, aveva stigmatizzato la loro pretesa di vietare la chiusura delle terre. Manno intervenne nella polemica con un sintetico memoriale , “ Annotazioni storiche sulle chiusure” dove, contestando le pretese dei baroni, tracciava un quadro interessante delle leggi del diritto patrio del Regno sui terreni privati.

Ormai, a suo parere, era giunto il tempo di fare in Sardegna la “proprietà perfetta” delle terre e porre le basi per il superamento di un regime feudale ormai anacronistico. Manno ebbe una parte importante nella elaborazione della riforma, che si concretizzò nel “ Regio editto sopra le chiudende” (6 ottobre del 1820) e nelle “ Istruzioni” esplicative (14 novembre 1820).

Quando vi furono i moti costituzionali del 1821, che portarono alle dimissioni di Balbo, Manno mostrò tutta la sua contrarietà alle ideologie liberali: conseguenza, questa , della sua formazione di funzionario legato ai modelli politici del vecchio regime che si identificava ancora con un assolutismo monarchico paternalista.

Non a caso, il 28 gennaio del 1821, Carlo Felice, quando formò il nuovo governo, lo nominò segretario privato. Il nuovo ministro dell’Interno, G.-J. Roget conte di Cholex, ebbe, secondo Manno, il merito di vincere la riluttanza del re a pubblicare per la Sardegna […] una grande raccolta di leggu civili e criminali (cfr. “Note sarde e ricordi”, Torino 1868, p. 288). I lavori preparatori della nuova raccolta normativa per il Regno di Sardegna iniziarono il 16 agosto del 1823.

Dall’8 di giugno del 1825 al primo setembre del 1826 il Consiglio Supremo di Sardegna – del quale Manno era stato nominato consgliere il 23 giugno del 1823 – completò il testo definitivo. Grazie anche a una conoscenza profonda delle “leggi patrie”, Manno ebbe un ruolo da protagonista nella elaborazione della nuova “consolidazione ”, chi si ispirava al modello delle costituzioni piemontesi del 1770. Nel proemio di Carlo Felice alle “ Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna ” (Torino 1827), scritto , in realà, da Manno, si affermava che obiettivo della nuova raccolta era quello di mettere insieme in un unico corpus le Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna, sparse fino ad allora in diversi volumi, scritte in lingue differenti e moltiplicate in modo esagerato.

Parrallelamente alla redazione delle leggi feliciane, Manno lavorò a una storia della Sardegna. Con una invenzione letteraria efficace egli accreditò la tesi che la genesi di questa opera letteraria imponente fosse stata, nel mese di gennaio del 1825, la lettura di un manoscritto con una sorta di descrzione storica dell’isola che un ufficiale tedesco (individuato in F.X. von Beck, autore di una “ Descrizione dell’isola e Regno di Sardegna”, scritta nel 1818) voleva dedicare al re.

In realtà l’idea di scrivere una storia della Sardegna aveva, probabilmente, origini antiche, ed era dovuta alla lunga frequentazione con gli statuti, i privilegi e il diritto patrio del Regno, nonché alla mancanza di una sintesi generale che potesse collocare gli eventi e i provvedimenti legislativi in un quadro storico unitario.

Il primo volume della “ Storia di Sardegna”, scritto solo in 7 mesi, fu pubblicato a Torino nel mese di agosto del 1825. Nell’affrontare la questione delle origini della storia sarda, Manno volle evitare la trappola delle lusinghe della fantasia in cue erano caduti molti di quegli autori che avevavno prestato orecchio alle “chimere greche”.

Per quanto concerne la storia della Sardegna romana, l’autore mostra una sicurezza innegabile, con l’uso avveduto dei repertori eruditi del 600 e del 700, grazie alla conoscenza degli autori classici. Raccontando la ribellione contro i Romani del “duce dei Sardi Amsicora”, con una grande intuizione letteraria l’autore fa il ritratto di un personaggio che, come un eroe da tragedia classiva, potesse far fremere il lettore di una giustificata fierezza nazionale.

Nel secondo volume (ibid. 1826), concernente la storia dell’isola dalla diffusione del cristianesimo fino alla fine del 200, Manno tratta argomenti spinosi come l’alta sovranità della S. Sede in Sardegna e la formazione dei 4 Giudicati, per i quali avalora l’idea della loro origine “nazionale”.

Nei volumi 3 e 4 (ibid. 1826-27), dedicati alle vicende dell’epoca spagnola e di quella savoiarda, Manno mostra una capacità notevole nel raccontare gli eventi e nell’affrontare i problemi, soprattutto grazie allo studio accurato delle fonti documentarie custodite negli archivi torinesi e sardi. Anzi, parlando di quel periodo, che gli altri autori non avevavno mai trattato, egli dà il meglio di sè, tracciando linee interpretative che sarebbero rimaste per molto tempo un punto di riferimento per la storiografia successiva.

Una pagina cui ha voluto dare un’importanza particolare (nel terzo volume) è la guerra degli ultimi giudici di Arborea comtra la Corona di Aragona, soffermandosi in particolare sul ruolo che ebbe Eleonora, la giudicessa legislatrice che ebbe il grande merito di concepire e portare a compimento la promulgazione della “Carta de Logu ”, dove Manno vedeva il fondamento della legislazione patria.

Per quanto concerne la dominazione spagnola, in controtendenza rispetto all’antiiberimsu diffuso nell’ottocento romantico, esprime un giudizio molto equilibrato, mettendone in evidenza meriti e limiti.

Su consiglio di P. Balbo, Manno elevò un monumento aere perennius all’opera di G.B. Bogino, con l’idea di collegare il riformismo del Settecento a quello di Carlo Felice, con una operazione culturale funzionale al disegno di integrare pienamente la nazione sarda nella monarchia sabauda. Il libro andò a ruba, e furono esaurite in breve tempo tutte le copie.

Il 12 gennaio 1826 Manno divenne socio dell’ “Accademia delle scienze” di Torino. Negli anni successivi si potè dedicare con più comodità alla sua vocazione letteraria: nel 1828 pubblicò a Torino il libro “ De’ vizi de’ letterati”, dove un esame garbato e ironico dei luoghi comuni della letterartura e della libertà della lingua si sviluppa in un quadro classicista che tradisce la sua avversità alle correnti romantiche.

Di lì a poco pubblicò “ Della fortuna delle parole” (ibid. 1831 dove ricostruisce la storia e l’etimologia di 283 parole con trattazioni filosofiche e letterarie; nel 1834, invece, pubblicò il “ Saggio di alcune espressioni figurate e maniere di dire vivaci della barbara latinità ” (s.l.).

Queste opere gli valsero la nomina, nel marzo del 1834, a membro corrispondente della “Accademia della Crusca”; l’anno precedente, per volontà di Balbo, era diventato membro della “Deputazione di storia patria”.

Nel 1833 si sposò con la torinese Tarsilla Calandra; dal matrimonio nacquero tre figli: Antonio, destinato a diventare uno storico di valore, Claudio, morto ancora bambino nel 1842, e Efisio.

Nel mentre la sua carriera procedeva: il 23 marzo del 1833 ottenne il titolo di presidente della Real Udienza di Cagliari; il 19 gennaio del 1836 istituirono solo per lui l’incarico di reggente di toga “in secondo” nel Consiglio Supremo di Sardegna, dove ebbe un ruolo decisivo nell’elaborazione dei provvedimenti legislativi di abolizione dei diritti e della giurisdizione feudale nell’isola (solo il 29 agosto del 1844 fu reggente di toga effettivo); il 14 di novembre del 1845 il re Carlo Alberto lo nominò presidente del Senato di Nizza, e il 2 novembre del 1847 presidente del Senato di Piemonte.

La sua carriera di magistrato si colloca fra la fine del vecchio Stato assolutista e la nascita del nuovo Stato costitutzionale.

Dopo acune opere occasionali cominciò a scrivere quello che forse è il suo capolavoro, la “Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799”, pubblicata a Torino in due volumi nel 1842.

Già nell’autunno del 1839 Manno aveva cominciato a raccogliere il materiale documentale per questa opera. Il 28 maggio del 1840 aveva informato Pietro Martini che avrebbe ripreso in mano gli studi storici per scrivere la storia moderna sarda dal 1773 al 1814. Mettendo insieme le fonti necessarie per fare questo lavoro, il suo interesse si concentrò non solo sulla documentzione ufficiale conservata negli archivi torinesi, ma anche sulla corrispondenza privata, oltre che su ricordi e testimonianze dirette.

Tuttavia cominciò a dubitare della oppotunità di affrontare la narrazione dell’epoca che va dal 1798 al 1814. Dunque, il 28 giugno del 1841, annunciò a Martini l’idea di concludere la “Storia moderna” con l’anno 1799, ovvero con l’arrivo a Cagliari della Corte Regia: si rendeva conto che la restaurazione, la dura repressione dei moti patriottici e il governo del vicerè Carlo Felice erano argomenti spinosi.

Il 6 di dicembre del 1841 s’òpera era conclusa. L’autore la considerò il suo miglior lavoro, e non gli si può dare torto, se consideriamo l’architettura robusta dell’opera, la conoscenza approfondita delle fonti, una qualità letteraria innegabile, la partecipazione emotiva agli eventi.

La “Storia moderna” è divisa in 2 volumi e 6 libri. Il primo volume inizia con il regno di Vittorio Amedeo III, descrive i primi conflitti fra la corte di Torino e la società sarda, destinati a esplodere dopo il tentativo di invasione dei francesci (1792-93); prende in considerazione tutte le fasi dei movimenti politici, dalla formulazione delle 5 domande all’insurrezione cagliaritana del 28 aprile del 1794, conclusasi con la cacciata dei piemontesi, fino alla radicalizzazione del conflitto culminata nei tragici disordini del mese di luglio del 1795.

Il secondo volume prende le mosse dalle prime divisioni emerse all’interno della formazione dei novatori e le prime ribellioni antifeudali del Capo di Sopra, per parlare, poi, della conquista di Sassari, bastione del partito baronale, del governo di G.M. Angioy, inviato come “alternos”, del fallimento del progetto antifeudale, della dura repressione del movimento angioyano, fino all’arrivo nel 1799 a Cagliari della corte savoiarda in esilio.

Quando fu pubblicata, la “Storia moderna” suscitò molte controversie. La lettura proposta da Manno della crisi di fine secolo e della rivoluzione patriottica sarda – che l’autore pretende che sia distaccata e imparziale, equidistante fra le opposte tensioni dei partiti– è, in realtà, eccessivamente condizionata dalle sue idee moderate.

I moti del 1848 trovarono Manno timoroso delle novità e attaccato con forza ai valori del passato. In quell’anno declinò l’incarico di Ministro delgli affari esteri. Il 3 aprile del 1848 il re lo chiamò al Senato del Regno, e il 26 maggio fu eletto vicepresidente. Nello stesso anno gli fu affidato l’incarico il presidente della commissione per l’assimilazione della Sardegna agli Stati di terraferma dopo la “fusione perfetta” dell’anno precedente. Presidente del Senato dal 13 febbraio del 1849 al 1855, allineato su posizioni conservatrici, si oppose ai liberali e, dal 1852, alla politica del Cavour.

Nel 1854 votò contro una proposta di legge sul matrimonio civile. Il 28 novembre del 1855 fu nominato presidente della Corte Suprema di Cassazione. Dal 1855 al 1866 fu anche presidente dell ’Ordine Mauriziano: nel 1853 aveva ottenuto il titolo di barone.

Con la nascita del Regno d’Italia le sue posizioni politiche entrarono in conflitto con quelle dei governi liberali della Destra storica: nel 1865 si opppose al trasferimento della capitale a Firenze e, con riguardo alla questione romana, si allineò con i clericali. Nel Senato si occupò anche dei problemi della Sardegna, con interventi riguardanti la colonizzazione (1856), il sisetma ferroviario (1862) e le voci di cessione dela Sardegna alla Francia.

Il 17 dicembre del 1865, all’età di 80 anni, andò in pensione. L’anno successivo pubblicò a Torino “ Della fortuna delle frasi”, un’òpera che, nella sua struttura classicista, era rivolta al passato. Sempre attento al dibattito storigrafico (il 15 aprile del 1860 era stato nominato vicepresidente della “Deputazione di storia patria”), riguardo alla questione della autenticità delle “Carte d’Arborea” preferì non predndere posizione.

Nel 1868 la Stamperia Reale di Torino pubblicò l’opera postuma “Note sarde e ricordi”. Vi sono fatti e figure non presi in considerazione nella sua opera dei precedenti 40 anni, con episodi della sua vita e descrizioni biografiche di funzionari e uomini di Stato che aveva conosciuto durante la sua carriera.

Morì a Torino il 25 gennaio del 1868