Halloween, che molti erroneamente considerano una festività genuinamente americana in realtà giunse, si radicò e diffuse nel nuovo continente come conseguenza delle ondate migratorie provenienti dalle isole britanniche ed in particolare dall’Irlanda.

Lì (come nell’attuale regione della Bretagna, a Nord-Ovest della Francia), si erano mantenuti nel corso dei millenni nella dimensione del folklore ed in parte deformate e riadattate in seguito all’influsso del cristianesimo, gli echi dei riti esoterici che venivano praticati dalle popolazioni galliche ivi insediate, tra cui spiccava quello dedicato a Sahmain: la divinità della morte.

Questo veniva praticato la notte che inaugurava il capodanno celtico, il 31 di ottobre, in cui i rami delle querce venivano tagliati e con essi erano accesi falò sui quali, in virtù della sacralità attribuita alla pianta, si immolavano in olocausto su di un’altura animali o addirittura degli esseri umani (e di questo piuttosto inquietante risvolto esistono attestazioni sia nel De bello gallico di Giulio Cesare che negli Annales dello storico Tacito).

Finalità di questa macabra tradizione era quella di consentire alle anime dei trapassati di ritornare là dove erano vissuti: ed è questo il motivo per cui in occasione di Halloween si usa vagare durante la notte con indosso costumi che richiamano le figure di zombies, fantasmi o scheletri.

Con l’avvento del Cristianesimo e così come avvenne per il Natale (che la Chiesa volle venisse celebrato in concomitanza e a sostituzione della festività pagana romana del Sol invictus), allo stesso modo già nell’VIII secolo papa Gregorio III stabilì che anche ciò che rimaneva dei riti druidici di Shahamin cedessero il posto alla commemorazione cristiana dei defunti, che da allora ha trovato il suo posto nel calendario liturgico proprio il primo di novembre.

Lo stesso termine Halloween non è altro che un calco dall’inglese “All Hallows eve”, cioè “vigilia di Ognisanti”.

Ma se pensate che questo sia solo un giorno di innocenti svaghi per bambino statiunitensi più meno cresciuti (da qualche anno anche dei loro emuli d’oltreoceano), c’è da sottolineare che alcuni adulti lo prendono terribilmente sul serio, trattandosi della più importante tra le ricorrenze, che non a caso hanno tutte luogo nel buio e nell’oscurità della notte, per i satanisti e per gli amanti dell’occulto.

Quello che da una quindicina d’anni capita alle nostre latitudini e longitudini ha però dell’incredibile. Chi nell’Europa continentale ha dai trentacinque anni in su non ha nessun vissuto diretto di una tale festività la cui conoscenza era nota solo attraverso gli schermi della televisione o del cinema e che a tutti appariva una delle tante esotiche americanate.

Solo dagli inizi del nuovo secolo (anno più, anno meno) gli esperti di marketing hanno cominciato ad individuare in una riproposizione abbastanza fedele di Halloween un’appetibilità commerciale anche per il mercato del vecchio continente.

Da allora puntualmente, e in modo sempre più pervasivo, già alla fine di ottobre di ogni anno spot televisivi, manifesti di centri commerciali, vetrine dei negozi di abbigliamento, locali diurni e notturni e qualsiasi altro luogo fisico o virtuale il cui target di riferimento è quello del giovane consumatore ci tempestano con più o meno burleschi riferimenti alla necrofilia o bene che vada alle zucche intagliate.

Tutto questo non è però casuale, rientrando a pieno titolo in un processo avanzato di secolarizzazione e mercificazione della vita da parte di noi occidentali, sempre più dimentichi dai valori che contano e sempre più instupiditi dai richiami dell’effimero.

Genuini e ricchi di significato spirituale sono invece i riti che in numerose parti di un’altra isola, quella che risiede dall’altra parte del vecchio continente e che risponde al nome di Sardegna, si perpetuano con secolare, rassicurante continuità.

Io stesso ricordo quel particolare giorno dell’anno in cui era lecito e anzi valeva la pena perdere un giorno di scuola per uscire di casa del primo mattino sferzati dal gelo autunnale per riunirsi ciascuno ad un gruppetto di coetanei e passare per le case del vicinato recando in spalla la federa di un cuscino bianco (presumibile simbolo di purezza).

E rammento l’emozione con la quale io, figlio della media borghesia italofona, di fronte al padrone o alla padrona di casa che si appalesava di fronte a noi con aria quasi sempre divertita, bonariamente scocciata nel peggiore dei casi, pronunciavo in un sardo invero alquanto stentato la frase fatidica: “mi ddas fait is animeddas?” Il premio che spettava a ognuno dei piccoli “disturbatori” erano quasi sempre qualche caramella, una merendina (diventata negli ultimi decenni il sostituto postmoderno della frutta secca) che in caso di raccolta abbondante finiva inesorabilmente compressa sotto gli strati superiori del premio più ambito: le monetine di taglia variabile dalle cento alle cinquecento lire.

L’annuale scorribanda aveva il suo epilogo inevitabile in tarda mattinata quando, dopo aver ascoltato almeno un paio di volte il ripetuto diniego “Ddas apo giai fatas!” ritornavamo con lieve mestizia ciascuno nella propria casa per poi depositare fieri sul tavolo della cucina il premio per le nostre fatiche.

La tradizione nasce con evidentissime affinità con quelle post-celtiche e come in quel caso è stata riletta e sublimata in chiave cristiana, assumendo un significato di indulgenza in favore delle anime purganti.

Intanto “sa die de is animeddas” continua a sopravvivere florida nei paesi del Sarrabus dove è radicata, e questo nonostante le succitate americanate abbiano fatto presa anche sul nostro territorio, estrema periferia dell’impero, specie tra gli adolescenti ed i cosiddetti Millennials.

Non ho notizie di eventuali crisi anche nelle altre “curatorie” dove la tradizione presenta alcune variazioni ed è declinata con altri nomi quali “su prugadoriu“ dell’Ogliastra o il barbaricino “su mortu mortu”.

Parrocchie, amministrazioni comunali e associazioni culturali dell’isola dovrebbero porsi come interesse primario quello di preservare queste bellissime tradizioni (e il loro significato più profondo) anche in modo da arginare un processo che pare inarrestabile di appiattimento e mercificazione globale di cui le giovani generazioni sembrano vittime predestinate.

Il nostro “All Hallows eve” sono “is animeddas”, che valgono mille Halloween: mettiamocelo in zucca!