I consigli regionali sono senza dubbio gli organismi istituzionali più screditati agli occhi dell’opinione pubblica dello stivale (al di là delle facili semplificazioni populiste indotte da una parte delle forze politiche e degli organi di informazione), che li identifica non sempre a torto come ricettacolo di malcostume e inefficienza e in alcuni casi, sulla base delle cronache giudiziarie degli ultimi anni, di corruzione manifesta.

Questo è forse sul piano politico contingente l’elemento di maggior debolezza del progetto di riforma costituzionale voluto dal governo presieduto da Matteo Renzi: il premier ha voluto assumere il rischio di legare inscindibilmente la propria sorte alla guida del Paese all’esito della consultazione referendaria.

Si tratta di una decisione che rientra pienamente nello stile renziano, poco incline alle liturgie di palazzo e al contrario fortemente connotato in termini di ricerca di un rapporto diretto con i cittadini, ma decisamente poco ponderato: il rischio di bocciatura da parte del corpo elettorale è infatti altissimo e i precedenti non muovono a suo favore.
Solo il referendum costituzionale tenutosi nel 2001 e relativo alla riforma del titolo V ebbe difatti successo (i SI furono il 64,2% dei votanti), ma questo ebbe luogo in un contesto storico-politico molto diverso da quello attuale.

Esso fu contraddistinto da un crollo verticale della fiducia dei cittadini nei confronti della classe politica come quotidianamente registrato dalle società demoscopiche, mentre solo pochissimi anni prima vi era stata la storica, repentina implosione di quasi tutti i partiti della “prima Repubblica” sulla scia dell’operazione Mani pulite a cui fu coevo il boom elettorale, al di sopra delle rive del Po, del movimento antisistema della Lega Nord (il quale si poneva allora come obiettivo prioritario la messa in discussione della stessa unità politica dello Stivale).

In un tale contesto la disaffezione nei confronti delle istituzioni aveva raggiunto un livello tale che qualsiasi riforma della Carta fondamentale della Repubblica avrebbe ottenuto l’approvazione dell’elettorato, a maggior ragione se consideriamo che una sorta di parola d’ordine dell’epoca, ripetuta come un mantra accanto all’aggettivo “liberale” (ma assieme ad esso gradualmente svuotata del suo significato più autentico fino a passare rapidamente di moda ed essere poi di fatto accantonata al pari di un ferro vecchio), fu proprio quello di “federalismo”.
Negli anni immediatamente successivi, a quella delle riforme federali ad ogni costo seguì una fase di più realistico riflusso, frutto dello scarso impatto che le leggi Bassanini (attributive di numerose competenze agli enti locali) avevano avuto sul piano pratico nella vita del cittadino comune.

Un discorso daltronde del tutto analogo a quello che si poteva fare in merito alla stessa riforma del titolo V voluta dal Centro-Sinistra: entrambe accrebbero la disaffezione nei confronti dell’istituto regionale e più in generale delle riforme intese come panacea di tutti i mali.

Ma a prevalere fu soprattutto il timore di quegli avventurismi “cantonali”, già sperimentati negli anni precedenti e di cui furono protagonisti leader e militanti leghisti i quali, sulla scia di una crescente ostilità nei confronti della da loro tanto vituperata “Roma ladrona” avevano alzato progressivamente il tiro fino a giungere ad una sorta di proclamazione unilaterale, poi gradualmente ridimensionata nel suo significato, dell’indipendenza della Padania (nome con cui questi avevano nel frattempo ribattezzato le regioni italiane poste al di sopra della linea gotica).

L’incrocio tra questi due fenomeni produsse come esito che i movimenti politici più tradizionali della cosiddetta seconda Repubblica, particolarmente adusi a sintonizzarsi con il polso del Paese attraverso i dati provenienti dalle società demoscopiche, depennarono più o meno rapidamente dall’agenda delle proprie priorità politiche le tematiche riconducibili al “federalismo”, ormai evidentemente passate di moda ovvero valutate come pericolosa anticamera alla secessione e quindi non più spendibili in termini elettorali.
Addentrandoci nel dettaglio della proposta il cui esito sarà deciso a breve dai cittadini italiani, la drastica riduzione del numero dei senatori gioca evidentemente a favore del duo Renzi-Boschi, tuttavia questa sarebbe potuta e dovuta essere ulteriormente coraggiosa, con la previsione ad esempio di un rapporto pari a uno a dieci tra i componenti di Camera e Senato: in tal caso, di fronte al numero di deputati rimasto immutato (che come è noto è pari a 630), quelli della camera alta sarebbero stati 63.

E alle eventuali critiche che un eccessivo ridimensionamento del numero dei componenti porterebbe a sminuire l’istituto senatoriale, sarebbe stato sufficiente far presente che all’interno del Bundesrat tedesco, le cui funzioni sono tutt’altro che simboliche, siedono solamente 69 delegati dei governi dei Land (ma gli abitanti della Germania sono però ben ottanta milioni, quindi in numero sensibilmente maggiore rispetto agli italiani).

Inoltre, a rappresentare le istanze territoriali nell’ipotizzato nuovo parlamento sarebbero da una parte i sindaci (innovazione questa da salutare con plauso), ma dall’altra non già i “governatori” o delegati espressione degli esecutivi regionali quanto piuttosto, come già ricordato all’inizio, i tanto vituperati consiglieri.

Nella riforma vi sarebbe poi un’ulteriore grave incongruenza: i 95 senatori espressione delle istanze territoriali non dovrebbero rappresentare più la “Nazione” nel suo complesso ma i rispettivi territori. Peccato che questa previsione non vedrebbe alcun riscontro sul lato pratico mancando il vincolo di mandato previsto nel caso del già citato Bundesrat tedesco, i cui membri possono coerentemente essere revocati in caso di difformità politica rispetto alle indicazioni degli esecutivi di cui sono espressione.

Di fronte a questi dati appare evidente come ogni supposto parallelismo tra il riordino costituzionale promosso da Renzi e il modello tedesco è in gran parte destituito di fondamento. La riforma configura poi più in generale un deciso processo di riaccentramento di poteri da parte dello Stato con qualche luce e molte ombre. Per cui da un lato è certamente positivo il fatto che la maggior chiarezza nella ripartizione delle competenze oggi concorrenti dovrebbe portare al drastico ridimensionamento delle oggi numerosissime controversie tra enti territoriali di fronte alla Corte costituzionale, ma non altrettanto lo è il giudizio politico che della riforma si può trarre: lo spirito sovranista che anima la Sardegna non può certo vedere di buon occhio la mentalità neo-sabauda attraverso cui quello che il centro concede prima graziosamente a Regioni e Comuni subito dopo venga loro altezzosamente tolto, in modo sempre e comunque arbitrario e unilaterale (e cioè senza che vi sia stato un reale confronto nel merito tra istituzioni centrali e periferiche).

 

E’ vero, le competenze delle Regioni autonome restano comunque invariate e questo è per noi motivo di grande sollievo: sarebbe stato intollerabile dal nostro punto di vista uno scippo di sovranità su materie come il turismo che il buonsenso nonché tutte le evidenze, in primis geografiche, suggeriscono debbano permanere nostra prerogativa primaria.

Poco rassicurante, nonostante tutto, resta anche la previsione di una sorta di clausola di supremazia in forza della quale, su proposta del suddetto governo centrale, lo Stato potrebbe avocare a sé con una semplice legge e «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale», le competenze regionali di cui alll’art. 117. Và da sé che sia il concetto di “interesse nazionale” che quello di “unità giuridica e economica della Repubbica” sono piuttosto fumosi nonché aperti a valutazioni le più arbitrarie, malizie e machiavellismi inclusi, da parte di una qualsiasi maggioranza di governo.

Fortunatamente, su iniziativa parlamentare dei rappresentanti le minoranze linguistiche alpine, da sempre filogovernative (invero più per opportunismo che per reale convinzione), è stato scongiurato il pericolo che tale previsione potesse estendersi alle potestà esclusive, concorrenti o integrative delle Regioni autonome, in primis la nostra. Ma questo non significa affatto che l’istituto autonomistico non viva una crisi profonda e che a lungo temine anche questa riforma possa dare avvio alla sua definitiva messa in discussione.

Di fronte agli attacchi nei confronti delle autonomie speciali che giungono con sempre maggior frequenza dalla voce o dalla penna di autorevoli opinion-makers e alcuni tra i più influenti esponenti politici (tra cui spiccano il ministro delle riforme Maria Elena Boschi e l’ex presidente della Camera Luciano Violante), questo maquillage costitizionale potrebbe dare il la a un processo di disfacimento inarrestabile il cui esito prevedibile è quello di porre, in un futuro non remoto, una pietra tombale sulla nostra, una volta tanto ammettiamolo, settantennale e non sempre felice stagione autonomistica.

Ma il No non significa un’acritica opposizione alle riforme costituzionali tout court: esse sono al contrario urgentissime! Il mio è un no a una riforma sbagliata non solo nel merito, come diffusamente evidenziato nelle righe precedenti, ma anche nel metodo. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, quello delle decisioni assunte a colpi di maggioranza su un tema di straordinaria complessità avrebbe necessitato un’ampia convergenza di tutte le componenti politiche in sede parlamentare, ma questo non è avvenuto.

Ad essere coinvolti sono inoltre aspetti diversi della seconda parte della Carta fondamentale repubblicana: dalla ridefinizione delle competenze tra Stato e Regioni a quella del bicameralismo. In tal caso vi chiedo: qualora i vitanti fossero in maggioranza favorevoli alla prima ma non alla seconda o viceversa, una loro decisione perentoria in favore o contro la riforma nel suo complesso sarebbe realmente democratica?

Un NO quindi aprirebbe la strada alla soluzione a mio avviso ottimale ma non nuova, in quanto già cavallo di battaglia del movimento referendario nella prima metà degli anni 90. E’ stata coraggiosamente riproposta dal neoleader di Forza Italia Stefano Parisi ed è quella di una nuova assemblea costituente.