Non so se avrei fatto una legge. Non sono certo contrario, ma temo che non basti. Le rivoluzioni culturali si fanno nella società, col dibattito, col convincimento. È difficile far accettare, per legge, cose non totalmente condivise o percepite.
So di non avere sufficienti competenze in materia linguistica ma sono pur sempre uno che della parola e del linguaggio ha fatto la sua professione e la sua ragione di vita.
So anche che è da segnali come quelli del rispetto di genere che possono nascere comportamenti virtuosi capaci di migliorare la società.
So, infine, da ex direttore di un grande giornale, di aver firmato un patto con la mia redazione, per rispettare un corretto linguaggio di genere, insieme ad altre piccole e grandi regole deontologiche che tutelano gli ultimi, i perseguitati, gli emarginati. Un patto che è stato sostanzialmente rispettato e che qualche piccolo riscontro nella società sarda lo ha avuto. Questo perché è ovvio che un giornale è anche un’agenzia culturale.
Leggo dunque con sconforto che alcuni amici, pur di tutelare lo status quo linguistico (molto afferente al settore della comunicazione), in queste ultime ore si sono ancora una volta rifugiati nella vecchia provocazione “e allora io voglio dire dentisto, geometro, logopedisto”.
In genere queste confusioni si fanno quando si scorda la materia sulla quale si dibatte. Se si gioca a calcio si segue il regolamento del calcio, per gli scacchi quello degli scacchi e via banalizzando.
È dunque ovvio, pleonastico, banale, che parlando di lingua italiana si faccia riferimento alla sua grammatica e alle sue regole. Non a tutti piacciono, non da tutti sono masticate e applicate ma – vivaddio – esistono e rappresentano la Bibbia in materia.
Nella grammatica italiana ci sono parole composte da una radice e da una desinenza che cambia a seconda del genere (maschile e femminile) e del numero (singolare o plurale).
Così maestr-o al femminile è maestr-a e al plurale è maestr-i; domestic-o / domestic-a / domestic-i; segretari-o / segretari-a / segretar-i.
Domanda: perché sindaco non dovrebbe rispondere alla stessa regola? (sindac-o / sindac-a / sindac-i).
Se poi non vi accontentate della mia deduzione logica potete sempre provare a fidarvi della Treccani: “Chi scrive sindaca adopera con efficacia le risorse flessive messe tranquillamente a disposizione dalla nostra lingua: sindaco/sindaca, avvocato/avvocata, postino/postina, ecc. seguono la normale alternanza nominale di genere maschile/femminile, espressa attraverso le uscite -o e -a”.
Mi trovate una voce di questo o altro autorevole testo che dà analoga copertura alla provocazione “dentisto”?
Così come sfugge alla mia comprensione la motivazione che dovrebbe spingere a vietare l’uso di ingegner-a mentre è comunemente accettato infermier-a.
Rispondere che suona male sposta il dibattito su un livello di pretestuosità che non è facile da dirimere.
Giornalista, geometra, odontoiatra – lo prevede la grammatica italiana senza interpretazioni – sono invariabili e il genere (e non il numero) si stabilisce con l’uso dell’articolo: il giornalista, la giornalista.
Infine, per tagliare la testa al toro in salsa identitaria, non si capisce (anzi, io lo capisco benissimo) come siamo potuti regredire tanto in poco più di sei secoli quando – nel proemio della Carta de Logu – Mariano IV veniva definito Giudice (Juighy) e la figlia Eleonora, invece, Giudicessa (Jughissa).
Senza imbarazzi, senza richiami a stupide cacofonie.
Ho una proposta: accettiamoci – o sopportiamoci – reciprocamente (tradizionalisti e rinnovatori del linguaggio) e tessiamo la nostra tela nella società: chi avrà più filo, tesserà prima.
Io – non a parole – sono stato e starò dalla parte dei rinnovatori.